SHOCK & SHOW
REALTÀ E ALTERNATIVE / NATURA NATURANS 7
CURATOR
Maria Campitelli
Consolato Generale di Croazia
Czone
Galleria LipanjePuntin
Galleria Il Planetario
Spazio Juliet
Studio Tommaseo
Teatro Miela
Teatro Stabile Sloveno / Slovensko Stalno Gledaliæåe
TRIESTE JULY, 5 – 31, 2002
PROMOTION AND ORGANIZATION
Gruppo 78 International Contemporary Art
IN COLLABORATION WITH
Comunicarte
SECRETARY’S OFFICE
Gruppo 78 / Barbara Stefani
PRESS-OFFICE
Comunicarte / Edda Battigelli
EXHIBITION DESIGN
Carlini & Valle
INSURANCES
Assicurazioni GENERALI S.p.A.
CATALOGUE BY
MARIA CAMPITELLI
LAYOUT
Comunicarte / Massimiliano Schiozzi
WITH THE COLLABORATION OF
Matteo Bartoli
PUBLISHER
Juliet Editions
TEXTS
Maria Campitelli
Lorenzo Michelli
Nicoletta Vallorani
TRANSLATIONS
Edda Battigelli
Erik Schneider
Michele Treves
PHOTOS
Mario Sillani
PRINTED BY
Graphart, Trieste
SPECIAL THANKS FOR HIS SUPPORT
B & D Studio, Milano
SUPPORTED BY
Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia
Fondazione CRTrieste Banca S.p.A.
Azienda di informazione ed accoglienza turistica di Trieste (A.I.A.T.)
PromoTrieste
Assicurazioni GENERALI S.p.A.
THE ORGANIZER WISH TO THANK FOR THEIR KIND COOPERATION:
B & D Studio, Milan
Consolato Generale di Croazia, Trieste
Czone, Trieste
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo per l’arte, Turin
Georg Kargl, Viena
Il Planetario, Trieste
Il Ponte Contemporanea, Rome
Lattuada Studio, Arte Centro, Milan
LipanjePuntin artecontemporanea, Trieste
Regina Gallery, Moscow
Sixty S.p.a., Vittorio Hassan’s “Art Energy” collection, Chieti
Spazio Juliet, Trieste
Studio Tommaseo, Trieste
MOREOVER
Enzo Bodignizzo, Fabiola Faidiga, Antonella Ilario, Marjan Kravos, Filippo Marini, Luciano Panella, Neda Piloti, Rosella Pisciotta, Vjekoslav Tomsic, Andrea Valenti, Amanda Vertovese, Maria Zerillo
gotico, avanguardia, l’urlo (di Maria Campitelli)
gotico, avanguardia, l’urlo
Maria Campitelli
Il secolo scorso si è concluso con un’esaltazione degli aspetti noir, terrifici e violenti di un’espressività che sembrava compiacersi della cinica negatività di cui è impregnato il mondo. Il punto di partenza è stato il nucleo YBAs (Younger British Artists) capeggiato da Damien Hirst che ha portato l’arte inglese alla ribalta internazionale, stimolando grandi gallerie alla proposizione di eventi “forti” (basti pensare alle spettacolari mostre di Damien Hirst da Gagosian e Bischofberger nel ’97). Un percorso che risale a “Freeze” di un decennio prima, organizzato da un Hirst in erba in un magazzino dei Docks londinesi, e che ha visto crescere nello scenario di una Londra ringiovanita la consuetudine dei cosidetti “Artists run space”, spazi espositivi gestiti direttamente dagli artisti. Questa spinta culturale dai tratti ribellistici e di spregiudicata autonomia, ha trovato la sua consacrazione ufficiale, rientrando quindi nel rango più tradizionale del sistema dell’arte, nella grande mostra dell’autunno ’97 alla Royal Academy, la spericolata “Sensation”, sotto l’ala di Charles Saatchi. E di sensazione veramente ne ha suscitata tra le sdoppiate ragazzine abnormi dei fratelli Chapman, il pescecane galeggiante in soluzione di formaldeide di Hirst, il papà morto, in silicone, di Ron Mueck, le sculture cosparse di sangue di Marc Quinn.
Arte estrema per generare emozioni in un pubblico sempre più distratto e propenso ad ingoiare tutto senza batter ciglio? Trasposizione nei linguaggi artistici di un pesante malessere, di un vuoto che sale dal profondo ed annichilisce lo spirito e i sentimenti? Volontà di stupire a tutti i costi l’ignaro uomo della strada?
È il segnale ineludibile di fine millennio, che in attesa dell’ignoto rinnova ed ingigantisce un oscuro senso di minaccia cui il mondo reagisce inscenando lugubri rituali di morte? Un bisogno di sensazioni estreme, certo, avendo accantonate quelle normali, irrorate talvolta da salutare ironia, che trova il corrispettivo in altri ambiti, dallo sport al cinema allo spettacolo. Sembra che il rischio, che confina con la morte, o quanto meno con il danno, la menomazione, la consapevolezza e l’esibizione dell’orrido, siano l’unico fattore di attrazione per una postumanità collassata, sopraffatta dalla tecnologia, incapace di opporvi la barriera di ragione e sentimenti. Si è parlato di “gotico sublime” (M. L. Frisa, Flash Art, n. 210, 1998), di “notte, buio e solitudine” quali quotidiani ingredienti esistenziali e le mostre all’epoca hanno gareggiato in titoli appropriati, da “Gothic: Transformations of Horror in Late 20th Century Art” di Boston al “The scene of the Crime” di Los Angeles, entrambe del ’97.
Tutto ciò era forse il preludio ed il presagio (con buona pace di Jean Clair poco disposto a riconoscere la facoltà visionaria e profetica dell’arte) di quanto esploso nel nuovo millennio a partire dal fatidico 11 settembre 2001. Oggi, nel 2002, nell’arte spuntano altri segnali e già quelli funerei degli anni ’90 si modificano in nuove modalità di comunicazione. Nel 2000 a “Sensation” ha fatto seguito, sempre alla Royal Academy, “Apocalypse”, ma il tono era già esausto. L’arte, come le vicende umane, trascolora di continuo, cogliendo i passaggi, le sfumature o le contraddizioni dei nuovi scenari socio-politici che si configurano nel pianeta. A questo punto si fa strada anche il discorso dell’avanguardia. Tutto ciò che, in arte, è estremo e trasgressivo, che va contro convenzioni o conformismi è avanguardia? In altre parole l’avanguardia, termine oggi comunque sospetto, reso obsoleto dalla transavanguardia, e dal senso controverso, rappresenta il lato oscuro e maledetto dell’espressività umana, quello che affonda tra sangue ed abiezione? È la notte densa di fantasmi, regno disordinato di Dioniso, contrapposta alla luce del giorno, regno radioso di Apollo, che fuga le ombre e fa apparire tutto rilucente? Jean Clair nel suo libro “La responsabilità dell’artista, le avanguardie tra terrore e ragione” (ed. Allemandi, 1998) incrimina l’avanguardia per la sua contrastante dualità originaria, accorpando in sé romanticismo ed illuminismo. “Mentre la modernità, sentimento di un accordo equilibrato con il tempo, appartiene a tutte le epoche, l’avanguardia è al contrario strettamente legata al romanticismo, di cui è il seguito e l’estenuazione. Essa è legata in particolare all’apparizione, con Saint Simon, Fourier e Proudhon, alle ideologie del progresso sociale e politico, ricalcate sul progresso delle scoperte scientifiche e iscritte, per parte loro, nella tradizione dell’Illuminismo”. (p. 23/24)
Nell’attuale tendenza ad indebolire la funzione e la consistenza storica dell’avanguardia, in vista di un recupero tout court del classicismo, regno della ragione, esente da sbandamenti provocatori, ritengo che i movimenti storici di rottura del secolo scorso rimangano del tutto intoccabili. A meno che anche in questo settore non si voglia avviare una storia dell’arte alla rovescia, revisionando le impostazioni fin qui accettate, evidenziando quegli aspetti a latere delle avanguardie, finora ritenuti marginali, facendoli d’un tratto rimbalzare alla ribalta. “Shock & Show, realtà e alternative” è una mostra che partendo da espressioni sconcertanti e conclamate, come ad esempio quelle dei fratelli Chapman del gruppo inglese, o di Orlan, regina della Body-Art e creatrice dell’arte carnale, – modelli di comportamenti artistici estremi, assai diversamente motivati – passa poi a considerare gli sviluppi di certe premesse, presentando personalità che con rinnovate intenzioni e modalità linguistiche testimoniano il loro approccio con le problematiche scottanti quanto ineludibili di vita, morte, sesso, violenza, verità, artificio, potere, degrado. Sono artisti di generazioni diverse, il cui intento a volte è proprio la provocazione, esibendo quello che non vorremmo vedere, perché suscita disgusto, come la corruzione della materia organica che nei “Waiting I” e “Waiting II” di Robert Gligorov diviene certo visione splatter. La violenza dell’immagine, che richiama con la corruzione la morte sia pure nella complicità del gioco, chiede il superamento dell’orrore, inchiodando lo spettatore ad una realtà che per ancestrali logiche comportamentali, preferisce ignorare. D’altro canto con Richard Crow, il tema della corruzione della materia è invece il piedestallo da cui cresce una sublimazione dello stato di morte, nella ricomposizione estetica, rifuggendo, al contrario, dalla violenza esibitoria, anche se la proposizione dei suoi oggetti-scultura, o degli atti performativi, non sono meno emblematici, penetranti ed inquietanti, circonfusi, essi sì, da un’aura gotica.
La provocazione, la trasgressione, lo shock, spesso clamorosamente dimostrativi dell’evoluzione scientifico/tecnologica come nel caso di Orlan, non sono espedienti d’avanguardia, sono necessità per ribaltare l’ovvietà del senso comune, per insinuare in un pubblico sempre più appiattito dalla colonizzazione televisiva, riletture non convenzionali delle cose del mondo. Sono soprattutto aperture cognitive.
Lo shock, la provocazione, lo spettacolo che a volte ne può scaturire, hanno radici ben più lontane del manipolo di artisti inglesi degli anni ’90. Risale quanto meno alla Body-Art, a Fluxus, al Wiener Aktionismus degli anni ’60, che hanno sommosso le convenzioni dell’arte con l’abbraccio arte-vita, con le Material-Aktionen di Otto Muehl, con il Teatro misterico di Hermann Nitsch, dove scorre un sangue simbolico, ma reale, sulle vittime sacrificali. L’impulso psicanalitico da cui discendono tali operazioni comporta l’appropriazione del lato negativo per liberarsene, mentre l’arte carnale di Orlan scandaglia le possibilità di trasformazione del proprio corpo, prefigurando le applicazioni della bionica, e dimostrandole, tramite i media, a tutto il mondo. Da femminista storica, intende anche sfatare lo stereotipo della bellezza femminile, salvaguardata nel tempo ad uso privilegiato del maschio. Tutta avanguardia infausta e maledetta?
Da questi modelli storici discendono le nuove proposte degli artisti più giovani. I collages di Elke Krystufek ribadiscono, con qualche parentela con lo spietato immaginario di Cindy Sherman e di Nan Goldin, l’antico discorso di una femminilità sfruttata, riflessa però, ossessivamente, senza falsi pudori nella propria disincantata ricerca identitaria. E non più di tre mesi fa ha bruciato all’alba la croce storica di Strunjan in Slovenia, ad opera degli artisti Goran Bertok e Dean Verzel. Atto blasfemo, provocazione, ancora shock e spettacolo per intrattenere un pubblico sfuggente? Se l’apparenza è shockante e spettacolare, il senso scava nel profondo. Un rituale come gesto di diniego verso le tante sovrastrutture, visibili ed invisibili che opprimono l’uomo; ancora una croce, atavico simbolo di morte, nella cultura occidentale, che reclama la vita. È il nuovo “urlo” dell’artista contemporaneo, che nello smarrimento generale, vuol far sentire la sua voce, al di sopra delle regole prestabilite. Come Munch, sullo scorcio del XIX scolo ha urlato la propria solitudine all’indifferenza del mondo.
il corpo, il sesso, l’anomalia (di Maria Campitelli)
il corpo, il sesso, l’anomalia
Maria Campitelli
il corpo, il sesso, la trasgressione, l’anomalia, il racconto noir, il luogo del delitto, il degrado, il soft, il classico… tutto e ancora Shock & Show
Dunque l’esibizione e la perlustrazione del corpo è alla ribalta più che mai nell’età postmoderna. Ed è proprio nel contesto dell’eros che si sono scatenate da sempre le censure legate ad una cultura religiosa proibizionista di estrazione cattolica e protestante. Un film ancor oggi è vietato ai minori di 14 o 18 anni se contiene scene erotiche non perché presenta raccapriccianti scene di violenza e sangue.
La libertà dell’arte agevola approcci diretti, di verità, avulsi da pregiudizi e riserve di sorta. Dipende dal messaggio che l’artista vuole emettere, scegliere la realtà più cruda della verità esistenziale, o piuttosto velarla da filtri mediatici di varia natura. È certo un campo, proprio a causa dei tabù da cui è stato circondato da secoli, che si presta facilmente all’esasperazione voyeuristica, allo shock & show confinante apparentemente con il kitsch e la pornografia. Anche se pornografia non diventa mai perché l’obiettivo è ben diverso e ben lontano dalla banalità e dalla noia insiti nel prodotto pornografico. Molti degli artisti radunati in questa occasione ruotano attorno al tema pulsante del corpo e del sesso, delle trasgressioni ad esso connesse, penetrando in quel privato che una cultura convenzionale può impedirci di accostare con naturalezza. Ma è anche ad un corpo modificabile con le biotecnologie e le nuove conoscenze scientifiche, che l’artista cerca di confrontarsi, ritenendolo un nuovo terreno di creatività, come da tempo fa appunto Orlan sul proprio corpo, innestando nell’organicità, l’artificio. L’obiettivo allora è disegnare una nuova identità per l’uomo del futuro.
La coppia Bachrach&Kristofic´ riproduce in gigantografie i corpi intrecciati nell’atto d’amore, alterati dalla ricomposizione scelta dagli artisti e dall’elaborazione al computer. Sono ripresi da una macchina solitaria ed invisibile che non disturba l’intimità, al contrario registra una fisicità corporea che ci aggredisce con i suoi close-up conturbanti. Ma lo scopo non è di stupire bensì di pensare queste immagini come manifesti pubblicitari stradali dal momento che gli stessi spesso appaiono intenzionalmente provocatori, a scopo consumistico – se si tratta ad esempio di reclamizzare biancheria intima o costumi da bagno – senza per questo suscitare la ben che minima reazione da parte di un pubblico disattento. L’esibizione della vita invece, suscita inquietudine se non dissenso.
E la presentazione del privato raggiunge l’esasperazione fino all’esibizionismo nei racconti tra foto, collages, pittura, performances di Elke Krystufek. Un bisogno estremo di confessare quello che ciascuno tiene per sé, cercando la definizione di un’identità femminile, dagli aspetti androgini, spesso violenti, che sfugge e si trasforma. Il critico Gianni Jetzer ha detto che rappresenta l’ideale profanato di una star del III millennio. Il suo è una sorta di diario visivo intimo, che sale dall’inconscio, in cui si ribadisce l’abbraccio arte-vita. E l’eros diviene sofferenza che sostituisce e si fa piacere nell’allucinato immaginario sado-maso di Goran Bertok. La tensione fino al disturbo si alimenta di sconvolgenti visioni in b/n, dove il biancore delle carni martoriate si esalta nel nero dello sfondo, nelle ombre spesse da illuminazione radente che accumulano violenza sulla violenza di catene, maschere di cuoio, orrendi marchingegni di autosofferenza. L’autoerotismo si traduce in desiderio di sacrificio e morte, evocando certi mistici medioevali che volevano ripetere su di sè la passione di Cristo.
Il giovane Fabiano di Cocco rincara la dose. L’eros perverso si coniuga con il gioco, il trastullo demenziale, che in una serrata sequenza di foto pure in b/n dipana un racconto proibito di variante onanistica. Ma se l’erotismo deviato in assenza di amore può condurre all’idea di vittima sacrificale, esso si esprime anche con l’azione soft, con l’ironia divertita di un Francesco Impellizzeri, che con la performance dal titolo “oooh”, come un soffio d’orgasmo, impersona la leziosa dama del ‘700, in corsetteria intima, vinta da turbe d’amore e desiderio. Spettacolarità frizzante, ambiguamente erotica, incanalata nella vocazione dell’artista a costruire personaggi, da Lady Muc a Rokkodrillo, da BodyGuard a L’Angelo Candito, TangetArt, Unpopop in cui si cala con sorprendente spirito trasformista. Con essi frantuma luoghi comuni, ironizza sul mondo dello spettacolo – specie la cantante star – sulle ambiguità che ci portiamo dentro. “oooh” è un invito al voyeurismo che prosegue con il videomaker e performer triestino Paolo Ravalico Scerri. L’esplosione di eventi video moltiplicati, sostenuti da elementari frasi musicali, che s’incrociano al Teatro Miela nella serata inaugurale, propongono ancora, con ossessiva autoreferenzialità, corpi illanguiditi nelle scansioni amorose, condensate in “Love Show”, “Eyes”, “Exhibition”, “Personal Love”, “Who-man”, “Gigolò”, montati all’unisono, in un unico grande environment. Protagonista è l’autore, il cui corpo, nelle morbide movenze en ralenti, dona e chiede “love”. Contrappunto alle immagini di sintesi, una bella sequenza di disegni, tratti dai video, dalle insistenti ed inconfondibili colorazioni blu/viola.
Ai languori di un eros dell’ambiguità sessuale, fa eco anche il celebre duo Pierre et Gilles qui presente con l’opera “Didier”. Un concentrato di lucida svenevolezza, di glamour che trascende nel kitsh, di patinato immaginario popolare in cui spesso risuona l’incanto d’Oriente, di stucchevole pietismo, di leggiadra blasfemia – dove si sprecano le lacrime, i sorrisi da innamorati anni ’30 – di falsi rapimenti estatici, di macchie di sangue troppo smaccate su casti visi incorrotti, di preziose cornici anticate, tutto ciò costituisce il loro inconfondibile vocabolario della finzione. Con in più, nelle opere recenti, un’accentuazione notturna che infonde un alone di mistero. Ma il corpo e l’eros ad esso connesso conoscono ancora altre varianti. Antonella Bersani fissa la sua attenzione su di un solo apparato anatomico, anche se le sue sembianze possono essere allusive di altre parti corporee; lucide, rosee, carnose, a protuberanze con una fonda cavità nel centro, che l’autrice definisce “corpi”, sono vulve. Le sparpaglia dovunque, dentro scatole preziose, tra i cuscini, sul tavolo tra i fiori, nel carretto siciliano. Cloni di una realtà ineludibile che circola dovunque, pensiero dominante, ironia di un’ipersessualità iperesibita e perciò declassata. Commento dunque divertito di un comportamento sociale che diviene paradosso.
L’immagine corporea prorompe nei nuovi performer, da Kulik a Zhang Huan. Oleg Kulik passa alla storia dell’arte contemporanea per essersi identificato in un cane, per aver immaginato un nuovo assetto relazionale interpersonale modellato sulle abitudini animali, più spontanee ed istintuali di quelle umane. La curatrice Rosa Martinez lo ritiene “un artista delicato che riflette sulla nostra capacità animale di amare”. E il cane figura immancabilmente anche nelle foto, testimone e collaboratore delle stupefacenti azioni dimostrative dell’artista. Zhang Huan si riallaccia alle esperienze estreme di Chris Burden, di Carolee Schremann degli anni ’70; il concettualismo occidentale è il supporto delle sue azioni. Il concetto di base è quello di appropriarsi dell’aspra sofferenza che soggioga il mondo, provandola direttamente sul proprio corpo. È la sperimentazione del limite di resistenza, l’apertura ad una conoscenza di vita non altrimenti raggiungibile. Le fotografie testimoniano queste prove di sopportazione e nello stesso tempo rivelano l’assoluto distacco dell’artista, nell’espressione imperturbabile, tutta orientale, della sua faccia. Una delle operazioni più famose è “12 metri quadrati”, dove, ricoperto di miele ed olio di pesce si lascia attrarre da centinaia di mosche che gli penetrano fino nelle cavità nasali e nelle orecchie, seduto immobile in una latrina dell’East Village di Pechino. L’approccio al corpo di Jake e Dinos Chapman è del tutto anomalo: con le ragazzine gemellate punta all’errore di natura, al mostro, e all’ossessione sessuale con le loro facce fornite di membro virile. Ma poi c’è il sangue, le torture, l’orrore, che raggiunge il culmine in “Hell”, l’opera maniacale esposta ad Apocalypse del 2000, punto focale di una mostra non più in grado di eguagliare la fortuna di Sensation. La vocazione all’orrore, con perfette simulazioni di efferata crudeltà, come quella di “Cyber Ironic Man”, che ripete un martirio cinese in cui riecheggiano le atrocità dei “Disastri della guerra” di Goya, è un marchio indelebile dei terribili fratelli, che ha fatto dichiarare al critico Wigram (cocuratore assieme a Rosenthal di Apocalypse) “(…) Ormai lo shock fa parte dei materiali artistici. E ne fa parte perché il suo stesso concetto è diventato un materiale”, (Flash Art, dic. 2000, genn. 2001, n. 225). Ma i fratelli Chapman – che non fanno che trasferire sul piano simbolico dell’arte ciò che accade quotidianamente in varie parti del mondo – si prendono gioco di tutta questa seriosità, dal momento che nei loro lavori abbonda il grottesco, (l’eccesso di tragedia sfocia in comicità) e un’irresistibile ironia.
Anche Erwin Olaf ha attraversato ripetutamente il landscape corporeo utilizzandolo, nelle sue fotografie, in contesti diversi. Olaf discende da una cultura tutta nordica, specificatamente olandese di fotografare le cose del mondo, con lucida spietata obiettività, intaccando con flussi ironici vari ambiti, da quello famoso ed impietoso delle pin-up-girls , impersonato da soggetti avanti negli anni, per lo più dotati di tremolante cellulite, a quello della moda, impregnato di ben altro glamour, che evidenziava la perdita d’identità tra le griffes della haut couture, per giungere recentemente a spettacolari, fantasmagoriche composizioni immaginifiche come nel ciclo “Paradise” e agli attuali ritratti, in cui tutto esplode sopra le righe. C’è chi col corpo svolge un processo narrativo, riesumando le modalità popolari del fotoromanzo fumettato degli anni ’70. Lorena Matic ha già percorso questa via, elevando se stessa a protagonista dei racconti. È un modo per moltiplicare la propria identità, secondo una linea di perlustrazione già sperimentata, e nello stesso tempo esplorare la sua mutevolezza con una presa diretta di vicende esistenziali. Non c’è metafora in questa “Sequenza psichedelica” – che vuole riesumare le tematiche della libertà sessuale esplosa con le battaglie femministe negli anni ’70 – se non nella fiction che precipita nello splatter. È la realtà stessa che viene posta in gioco, non senza ironia, a petto dell’ordinaria follia e della quotidiana carneficina proposta dai media.
Il sarcasmo graffiante attraversa invece i manufatti ingegnosi di Giuseppe De Cesco. L’artista si diverte a manipolare tutti i materiali possibili, creando oggetti, spesso semoventi e anche in grado di emettere suoni, o ambientazioni, che stravolgono le regole, le strutture etico-sociali che governano d’abitudine i comportamenti. È un rifare le cose, spesso sul filo di reminiscenze filmiche, proiettandole fantasticamente su di un piano di rinnovate dinamiche logiche. L’installazione per questa mostra, dal titolo spiazzante e divertito di “L’ascia o raddoppia?”, ci conduce all’interno di una doccia (“Psycho” di Hitchcock) dove il gorgoglio dell’acqua, una grande bolla sospesa sullo scarico, enfatizzata da una luce interna, dei capelli sospesi sopra, parlano non solo dell’uso normale che di questo attrezzo domestico si fa, ma di un possibile luogo del delitto e dei sistemi di investigazione per recuperarne le prove. Le vie della stupefazione sono infinite, quella del croato Igor Kuduz si spinge sulla strada dell’anomalia grottesca, inscenando una serie di “Capricci” (Freaks) che certo con quelli del Guardi non hanno nulla a che vedere. Il ciclo di fotografie che va sotto questo titolo è come un godibile divertissement, percorso da abbondanti dosi di ironia, (un aspetto costante nella produzione di Kuduz) che si prende gioco dell’umanità. Degli scherzi di natura, rigorosamente inventati, vengono affibbiati ad una serie di personaggi, che si ritrovano in qualche modo vistosamente alterati. Come il Franck Lantini, impettito in giubba militare, munito di tre gambe, o la sapida donna prosperosa fornita di tre mammelle. Il tutto accessoriato da dettagli anticati, dal viraggio delle immagini, alle cornici dorate, alla targhetta metallica sottostante con il titolo. Uno show a fior di pelle che induce al sorriso, ben lontano dal black humor stile inglese.
Nella rincorsa allo shock Robert Gligorov è maestro. La sua ricerca insiste soprattutto sulla possibilità, tramite una dirompente fantasia inventiva, di travalicare ogni senso comune, di stupire ancora, come ultima chance di un’espressività che ha già tutto consumato. Ed il corpo sede di mutazioni naturali ed innaturali, è il luogo prediletto per esercitare questa esplorazione. Un corpo il cui inevitabile disfacimento è prefigurato appunto con l’operazione Waiting I e II. Un corpo che non può disgiungersi dalla trasformazione definitiva della morte, e che l’artista vorrebbe documentare, oltre il suo limite, nel video della performance in cui s’impicca. E con la tecnica del morphing l’artista ha già prefigurato le possibili contaminazioni tra regno animale, vegetale, minerale per un’era postumana e postgeologica. Ma i nuovi artisti non cercano solo l’espressività violenta; ci sono modi più soft per stupire. Sono quelli che usa il fotografo Fritz Kok e rappresenta l’attualità di un filone di arte fotografica tipicamente olandese iniziata con le proposizioni inquietanti delle bambine forzate ad essere adulte, di Inez Van Lamsveerde. Quello di Kok è un mondo surreale fatto di algida fiction che ci trasporta nel sogno però con la concretezza tangibile di apparizioni ben collocate in ambienti reali, simili a laboratori di ricerca scientifica, tra vasche e piscine. Infatti il personaggio chiave è una sirena, un ibrido seducente, sofisticato ed asettico che sembra il frutto di laboriose ricerche dell’ingegneria genetica, ispirato dal glamour di una fashion/cover (Kok lavora nel mondo della moda). Sembra un alieno piovuto d’altri pianeti, dai connotati tuttavia iperrealistici, sottoposto a continui controlli medici per verificare le sue incerte capacità di sopravvivenza. Su un terreno opposto nascono i lavori di Genia Chef e Ricardo Cinalli. Il primo, attraverso assemblaggi fotografici, elaborati al computer, riflette sulla perdita di un mondo di bellezza creato dall’antichità classica, rievocato in fantasiose ambientazioni crepuscolari e decadenti. In esso si associa anche la reale presenza umana riassorbita nella suggestione della ricostruzione ambientale. Per questa mostra Genia Chef ha realizzato un’opera ispirata alla famosa “Isola dei morti” di Arnold Boecklin, realizzata cent’anni fa. Se in Boecklin si celebra il declino dell’estetica greco-romana, Genia Chef lo traspone in tempi moderni e contemporanei, accostandolo a realtà storiche come quella di Lenin, Hitler, al Metropolitan Museum di New York, alla Vecchia Galleria Nazionale di Berlino. L’intento è quello di individuare il filo rosso di costanti archetipi dell’umanità, nella ricognizione storico-estetica, che insistono su violenza, distruzione e morte. Lo shock di fondo in questo caso si stempera nella visione simbolica attraverso il filtro estetico-concettuale.
L’argentino Ricardo Cinalli è il possente Michelangelo dell’età contemporanea. La sua conoscenza e capacità riproduttiva del corpo umano tocca vette spettacolari. I suoi landscapes popolati di braccia, piedi, mani rimandano all’affastellamento umano delle metropoli del pianeta. È la celebrazione ossessiva del corpo umano, esente ancora da ibridazioni tecnologiche, che negli asfittici grovigli come in “The human Pyramid, Homage to the Millenium”, sdoppiato nell’antistante specchio d’acqua, alludono ad una drammatica costipazione psico/fisica cui l’umanità è costretta negli sterminati agglomerati urbani. È una revisione illimitata della cultura classica, di quella rinascimentale, di De Chirico postmetafisico, con la tensione e la libertà linguistica dell’uomo del III millennio. C’è un altro terreno su cui scendere per ritrovare l’horror ed innescare lo shock. È quello dell’emarginazione sociale. L’artista ucraino Sergej Bratkov si propone di documentare, nel filone della nuova fotografia che proviene dall’Est “un ritratto non alterato della cruda realtà”. Il gruppo di fotografie, tratto dalla serie “Bad Time Stories” risale al progetto “Children’s Horror” del ’98. Testimonia, con delle “mise en scène” in luoghi degradati, la drammatica realtà dei bambini della strada, orfani o senza casa, i “perdenti” di ieri e di oggi, accomunati dal medesimo destino sia durante il regime sovietico che dopo. Riesuma, con una fiction esasperata, gli assurdi rituali inscenati dai “giovani pionieri sovietici” quando i bambini venivano inquadrati secondo i codici del Soviet. L’ironia grottesca precipita le performances ritualistiche in horror splatter. Piuttosto che adeguarsi alle banalità e agli stereotipi virtuali degli horror movies di serie B che infestano la Russia postcomunista, è preferibile ricostruire la tragedia reale che ha investito e continua ad investire, nella miseria e nel degrado, l’infanzia abbandonata a se stessa.
La velata denuncia o la disincantata constazione di come stanno le cose nel mondo, nel pubblico e nel privato, lievita dentro i lavori di Guillermo Giampietro. Rituali quotidiani e sensazioni epidermiche o profonde si accavallano nelle composizioni visive elaborate al computer. L’oggetto d’uso si associa alla carnalità che vi si insinua, in una sovrapposizione di momenti complementari, secondo ritmi della fiction ma anche della mobilità del pensiero. L’elogio del disastro una volta, sull’eco di Blanchot (“La scrittura del disastro”) ora l’ambiguità di senso, negli enunciati, costituiscono la trama sottile di un discorso aperto a interpretazioni diverse, con rimandi socio-politici, nella consapevolezza dell’impossibilità di catturare una realtà definitiva. “Disprezzate l’enigma del terrore futuro” è il titolo sibillino dell’opera allusiva qui presentata; fa parte di un progetto espansivo costituito da momenti diversi, distribuiti nel tempo, da un programma radiofonico alla performance. Il lavoro di Ennio Bertrand “Under Attack” si identifica con lo shock più incredibile che abbia mai colpito l’umanità del nostro tempo: l’attacco alle torri gemelle. Ennio Bertrand da tempo usa i media tecnologici più avanzati con cui filtra le sue conoscenze e le sue emozioni. “Under Attack” infatti è la prima applicazione di un’innovazione interattiva che l’artista ha messo a punto. La tecnica che permette di interagire con le immagini video l’ha chiamata Remote Stills e stabilisce – tramite un computer ed un dispositivo ad ultrasuoni che rileva la posizione dello spettatore, collegati ad un software – un diretto e stretto legame con il pubblico. Lo spettatore infatti, a differenza di altri interventi interattivi in cui è lui ad effettuare le modificazioni, qui ne è come risucchiato e subisce le immagini del video che involontariamente si trova a condurre. Cioè gli spostamenti dell’osservatore nello spazio, determinano dei cambiamenti nella successione del racconto visivo. Avanzando, indietreggiando o fermandosi, il video ci segue e ci fa rivivere dall’interno e da protagonisti la tragedia di New York trasmessa dalla CNN sotto il titolo indimenticabile di “America under Attack”. Lo shock di Francesco Scialò è di altra natura. Attento alle problematiche e agli eventi devastanti che lacerano il mondo e l’umanità, li traduce in personali riflessioni/opere che stanno tra la scultura e l’installazione. È una risposta alla sequela di spaventosi omicidi, stupri, pedofilia, distruzioni che la TV ci regala quotidianamente. Ma si dedica anche a tematiche più leggere, per lo più trapassate dall’ironia. La sua caratteristica inconfondibile (che nelle ultime opere è venuta meno, sostituita da altre modalità strutturali, affidate a materiali di recupero soprattutto stoffe) è l’illuminazione che queste opere subiscono, come alberi di Natale, trasformandosi da tragedia truculenta in spettacolo. Ma non solo, l’illuminazione prodotta da innumerevoli minuscole lampadine sparse su tutta l’opera, infonde un’atmosfera di calore, un soffio catartico e sublimante, con la complicità anche di un ludico sorriso. Superano la realtà del male ed aleggiano verso una realtà di sogno. Succede anche a “Questo è il tuo sacrificio” per cui l’atto assassino dell’uomo incappucciato (un rituale satanico?) cede in violenza sotto l’effetto dell’illuminazione radiante. Sandy Skoglund è la regina delle trasformazioni ambientali con le sue invasioni di frotte di animali, gatti, scoiattoli, orridi serpenti, mentre l’umanità ignara o inconsapevole continua a svolgere indisturbata le sue mansioni di sempre. Le sue fotografie, distintive tra tutte, sono il frutto di laboriose “mise en scène” per costruire l’incubo domestico che ci assale a nostra insaputa. Simboli, senza traumi, di malesseri e fobie, materializzano dissociazioni ed incongruenze che, nei lavori più recenti si accentuano con lo iato tra figure reali capovolte ed immagini fittizie – cloni o replicanti di altri mondi – come in “Breathing Glass” (2000).
Un’ulteriore svolta sta nella pioggia di popcorn che ricopre personaggi reali e maquettes per trasformarsi in fotografie dall’algido clima invernale oppure in concrete installazioni. Paul M Smith è un altro enfant terribile della scuola inglese. Ma le sue scelte sono meno mortifere dei suoi colleghi di qualche anno prima, puntando soprattutto alla spettacolarità spericolata. Il ciclo “Actions”, fotografie racchiuse in light-box, sì da renderle ancor più asettiche ed irreali di quello che già può fare il passaggio in Photoshop, ripropone in qualche modo le mitiche gesta filmiche di James Bond, sfruttando anche l’esperienza di fotoreporter dell’esercito britannico che l’artista ha svolto da giovanissimo. Con mirabolanti sotto in su, si fa cogliere (è lui il protagonista) mentre vola nel cielo, issato da opportune gru invisibili, da un palazzo all’altro, o mentre si lancia dall’elicottero addosso a noi, parafrasando la pratica sportiva col brivido della morte oggi di moda, “Jumping”. Immagine shock: anche il giovane Matthew Barney aveva iniziato, arrampicandosi sulle liscie pareti delle gallerie, con strani marchingegni, portando la concretezza dello sport nel sacro recinto dell’arte. Come si diceva all’inizio, c’è da registrare questa coincidenza, sintomatica del nostro tempo, tra azioni estreme e bisogno dell’arte di cimentarsi oltre le righe, nel tentativo (illusorio?) di scuotere l’appiattimento delle coscienze intorpidite. E di morte, anzi di disfacimento cui è destinata la materia organica, parlano anche le performances di Richard Crow. Praticando dalla fine degli anni ’80 diversi linguaggi, dalla scultura al video, dal film alla produzione audio, li fa spesso confluire, tra loro intrecciati, nelle sue performance.
Punto nodale della sua ricerca è il concetto di “Rot” (marcio, putrefatto) che si riallaccia all’assunto di Marx: “In history, as in nature, the rotten is the laboratory of life”. Simile in questo a certi assunti di Greenaway, dichiarati specie nello “Zoo di Venere”, produce oggetti-sculture, partendo dalla loro decomposizione, da quando, esaurito il loro ciclo utilitario, possono diventare un’altra cosa. Eleva così lo stato di morte ad una nuova vita, tramite il percorso estetico. Questi oggetti trovati che contengono stratificate storie reali, nella trasposizione estetica mantengono la loro pulsione evocativa e nella performance divengono “performative objects”, cioè svolgono un ruolo attivo con la medesima importanza dei performer. “Executor”, portato a Trieste, implica il concetto di “performative persona”, giocando sulla polivalenza della parola stessa che investe ruoli diversi (dall’esecutore testamentario al giustiziere) e in primo luogo la figura del performer che esegue un progetto artistico. Anche nei progetti di grandi installazioni di Dean Verzel circola l’idea di morte, ma allacciata alla vita e alla conoscenza, come ne “Il trionfo della morte, dal libro all’esperienza cosmica” del ’97. In quel caso l’accumulo dei libri impenetrabili, ciascuno sigillato dalla vite stellare, racchiudeva un sapere nascosto, dischiuso solo sul libro con “Il trionfo della morte” di P. Breughel.
Il simbolo della croce, segnale remoto che si perde nella notte dei tempi, al di là del riferimento cristiano, è ora l’oggetto di più intensa ricerca da parte dell’artista. Un simbolo che confina con la realtà più tangibile, come quella del progetto della grande croce di perspex piena d’acqua in cui l’artista si immergerà per rinnovare un sacrificio che combacia con la prova di resistenza, nella migliore tradizione di body-art, per un’ amplificata esplorazione delle potenzialità umane, fisiche e psicologiche. La simbologia della croce è sfociata nella recente performance dell’incendio di una croce seicentesca, condotta assieme a Bertok, a Strunjan in Slovenia. Accanto alla provocazione che si colora di dissenso nei confronti di oscuri poteri che governano gli uomini al di là dei loro voleri, la croce che brucia è prova, secondo il discorso pronunciato dal filosofo Mlakar, in presenza dell’evento, della verità di Dio, che risorge dalla rovina della croce, bruciata perché strumento del male estremo su cui è morto il Cristo.
una mostra come antidoto (di Lorenzo Michelli)
una mostra come antidoto
Lorenzo Michelli
“(…) Sono per un’arte con cui dare martellate, rammendare, cucire, incollare, limare. Sono per l’arte che ti dice che ora è, e aiuta le vecchie signore ad attraversare la strada. Sono per l’arte delle pompe di benzina bianche e rosse e per le ammiccanti pubblicità dei biscotti(…)”. Queste parole di Claes Oldenburg inserite nel libro di Lea Vergine “Dall’Informale alla Body Art” individuano un’identità espressiva precisa, quella della Pop Art, vincolata ad una quotidianità quasi ossessiva; alla Biennale del ‘64 sbaragliò qualunque concorrente e siglò la vittoria dell’arte americana su quella continentale.
Fu spaesamento rispetto all’arte coeva europea, fu senso di vertigine per la semplice grandezza dell’artisticità americana che cacciava in un angolino ogni altra possibile esperienza. L’arte coniugata al quotidiano giungeva al sublime; inventava nuovi modelli visivi e prefigurava illusioni per un possibile presente-futuro da inventare. Era l’epoca in cui si preparavano anche quelle esperienze sul corpo come unità da provare fino allo stremo, da sentire e da far comunicare in modo alternativo: lavori anche scioccanti ed estremi. Si tendeva alla miscellanea di linguaggi all’insegna di una nuova artisticità: il nuovo, o meglio l’estremamente nuovo, praticato attraverso l’ars pulchre cogitandi (arte di ragionare bellamente). Giungendo alla contemporaneità si evidenzia nell’arte una sorta di eclettismo sempre più esasperato, vera e unica tendenza generale della ricerca attuale che si confonde nel macroscopico indirizzo globalizzante dell’era massmediale. Saltati i confini della ricerca locale, l’artista si confronta totalmente con l’altro, cercando ancore ed appigli per mettersi in relazione con la ricerca espressiva mondiale. Le occasioni non mancano: a partire da Internet che ti collega con realtà lontane eppure ormai vicine. Quella che manca però è l’esperienza del viaggio per l’incontro; spazio e tempo risultano ridotti ai minimi termini e quindi prevale l’idea di poter essere con chiunque e dappertutto.
Il titolo della Biennale di Szeemann è sicuramente una delle idee più azzeccate per parlare dei segni macroscopici che connotano la società attuale. Inoltre l’arte si lega sempre più a quelle forme di spettacolarizzazione che la vogliono ricca, glamour e patinata. Vincono i progetti visibili medialmente, quelli che giungono alla visione collettiva per mezzo degli stessi canali della notizia massmediatica. Prevalgono i grandi mercati, i centri metropolitani, gli artisti e le gallerie che impongono un buon prodotto, nuovo ma legato a regole irrinunciabili. Le fiere e le grandi mostre sono ricolme di pubblico che vaga ondeggiando incerto tra proposte che si confondono, citano, tendono ad uno scarto originale e altre che ripiegano su soggetti anacronistici. In mezzo a questa confusa pluralità d’intenti, stare all’erta sembra un atteggiamento consigliabile non solo per chi vive nel mondo dell’arte, che comunque troverà sempre i canali del sostentamento in quanto precipuo e necessario all’identità umana, ma per chi sta nel mondo osservandone le trasformazioni sociali e politiche. L’arte anticipa e parla della società e da essa si ricavano immagini di sgomento, di inquietudine, di allarmismo, di malattia. Ciò nonostante addentrandosi in una prospettiva catartica, questo non significa che l’arte sia assoggetta a valori negativi quanto invece tenti, con gli stessi mezzi riconoscibili da tutti, di individuare una via di fuga con l’obiettivo di piegare assetti comportamentali basati su regole pregiudiziali. Si tratta di trovare la metodologia d’intervento più opportuna rapportandola all’effettiva situazione del territorio in cui la si vuol far scaturire. Shock & Show proprio per la sua intrinseca volontà di procurare rumore (ma anche proporre alternative all’arte urlata e ad effetto) nasce dell’esigenza di inserirsi nel tessuto cittadino triestino per manifestare un desiderio di accettazione dell’altro, per ribadire una continuità con esperienze d’arte già riconosciute e svoltesi in questi anni e per dimostrare un desiderio di espressività contemporanea in una città particolarmente rivolta al passato e legata a convenzioni.
Trieste, il cui patrimonio culturale è costituito dalla sua stessa fascinosa struttura e dalle menti che vi hanno operato, necessità di una rilettura col fine di ritagliarsi una nuova identità per il secolo appena iniziato. È necessario educarla al “bel vivere contemporaneo” cercando di estrapolare ciò che di positivo vi è nella cultura visiva internazionale e farla collimare con le specificità del territorio, con le sue tradizioni, con i suoi segni. Uno dei punti focali attorno a cui è stata ideata Shock & Show è la sua ramificazione in spazi culturali diversificati; questo è stato voluto proprio per raggiungere un pubblico differenziato ed allargato ma anche per trasformarsi in una passeggiata tra l’arte ad alto effetto emozionale-emotivo. Gli artisti presenti si allontanano dal cosiddetto concettuale storico, freddo e matematico per andare a costituire, riuniti, una rassegna che ci dice di un immaginario galvanizzato dall’era tecnologica, che produce una pletora di visioni per una quotidianità estetica, una sorta di antidoto contro lo stereotipo.
gothic, avant-garde, the scream (by Maria Campitelli)
gothic, avant-garde, the scream
Maria Campitelli
The last century ended with the exaltation of the terrifying, violent and noir aspects of an expression which seemed to enjoy the cynical negativity which permeates the world. The point of departure was the nucleus of YBA’s (Young British Artists), led by Damien Hirst, who brought English art to international attention, stimulating the major galleries with the offer of ‘strong’ events (one need only think of the spectacular shows by Damien Hirst at Gagosian and Bischofberger in ’97). An itinerary which began with ‘Freeze’ a decade earlier, organised by a very young Hirst in a warehouse of the London Docks, and which ushered in the so-called ‘Artist’s run space’ or exhibition spaces managed directly by the artists in the setting of a rejuvenated London. This cultural impetus, characterised by rebelliousness and a radical autonomy, had its official consecration (by which it was also re-appropriated by the traditional art system) in the major exhibition at the Royal Academy in the Autumn of ’97, the daring ‘Sensation’ under the sponsorship of Charles Saatchi. And a sensation it caused indeed, with the doubled, abnormal young girls by the Chapman brothers, the shark floating in a solution of formaldehyde by Hirst, the dead father in silicon by Ron Mueck, the sculptures smeared with blood by Marc Quinn, etc… Extreme art in order to stir up emotions in a public increasingly distracted and inclined to swallow anything whatsoever without batting an eye? The transposition into artistic languages of a profound malaise, an emptiness which rises from deep within and annihilates the spirit and feelings? The desire to astonish at any cost the unsuspecting man on the street?
Is it the inevitable sign of the end of the Millennium, which in awaiting the unknown renews and magnifies an obscure sense of menace to which the world reacts by staging lugubrious rituals of death? It certainly manifests the need for extreme sensations, the more conventional ones having been set aside, though sprinkled at times with a healthy dose of irony, which corresponds to similar phenomena in other areas, from sport to cinema to the performing arts. It seems that risk, which flirts with death, or at least with some form of damage, disparagement, the awareness and exhibiting of the horrifying, constitute the only attraction for a collapsed ‘post-humanity’, overwhelmed by technology and incapable of opposing the barrier of reason and sentiment.
Reference has been made to the ‘sublime gothic’ (M. L. Frisa, Flash Art, n. 210, 1998), to ‘night, darkness and solitude’ as daily existential ingredients and the exhibitions during this period vied with one another for the most appropriate name, from ‘Gothic: Transformations of Horror in Late 20th Century Art’ in Boston, to the ‘Scene of the Crime’ in Los Angeles’, both in ’97.
All of this was perhaps the prelude and presage (despite Jean Clair’s views to the contrary, little inclined as he is to recognise art’s prophetic and visionary qualities) of what exploded with the New Millennium, after the fateful date of September 11, 2001.
Now, in the year 2002, other signals are appearing in Art and the funereal tones of the ‘90’s are already modifying themselves with new forms of communication. In 2000, ‘Sensation’ was followed by ‘Apocalypse’ (also at the Royal Academy), but this approach was already worn out, exhausted. Art, like other human activities and events, is highly changeable, and is attuned to and culls the passages, the subtle shades or contradictions of new social-political scenarios which appear around the world.
Here we must consider the discourse of the avant-garde. Can everything in art which is extreme and transgressive, which runs counter to convention or conformity be considered as avant-garde? In other words, the avant-garde, a term which has in any case become quite suspect today, rendered obsolete by the trans-avant-garde, and the taste for controversy, represents the dark and cursed side of human expression, what sinks between blood and abjection? It is the night dense with phantasms, the disordered realm of Dionysius which stands in opposition to the light of day, the radiant realm of Apollo, who flees from the shades and makes all appear bright and shining. Jean Clair, in his book “The responsibility of the artist, the avant-garde between terror and reason” (Allemandi, 1998) takes the avant-garde to task for its original, conflicting duality, incorporating as it does both romanticism and the spirit of the enlightenment ‘While modernism, which had a balanced relationship with time, belongs to all epochs, the avant-garde is closely tied to romanticism, of which it is the successor and extension. It is especially linked to the appearance, with Saint Simon, Fourier and Proudhon, of the ideologies of social and political progress, which adhered closely to scientific progress and which, in turn, were in the enlightenment tradition’ (p. 23/24).
With respect to the current tendency to weaken the historical function and consistency of the avant-garde in order to recover a classicism tout court, the realm of reason without provocative incursions or deviations, I believe that the historical movements of rupture which occurred last century remain untouchable. Or, at any rate, should remain so as long as there is not the intention, in this sector as well, to initiate a history of art in reverse, with a revisionism of the interpretations accepted up to now, by means of suddenly highlighting or shifting to the foreground those aspects which ran concurrent with the avant-garde, and which until now were considered marginal. ‘Shock & Show, reality & alternatives’ is an exhibition which, taking its departure from disturbing and acclaimed expressions, such as those by the Chapman brothers of the English group, or Orlan, queen of Body-Art and creator of carnal art – models of extreme artistic behaviour, of the most varied motivations – then moves on to consider the developments of certain premises, presenting personalities that with renewed intentions and linguistic modalities testify their approach with issues as burning as they are inevitable, life death, sex, violence, truth, artifice, power, decline or degradation. These are artists from different generations, whose declared intention at times is provocation, showing what we do not wish to see, because causing disgust, such as the corruption of organic matter which in ‘Wating I’ and ‘Waiting II’ by Robert Gligorov becomes a certain vision of splatter. The violence of the image, which recalls the corruption of death, though with the complicity of play, a game, requires overcoming a sensation of horror, transfixing the spectator to a reality which due to a primordial behavioural logic, he/she prefers to ignore. On the other hand, with Richard Crow, the theme of the corruption of matter is instead the pedestal upon which to develop a sublimation of the state of death, in its aesthetic recomposition, taking refuge, on the contrary, from the exhibitionary violence, even if the proposition of its objectssculptures, or its performing acts, are no less emblematic, penetrating and disturbing, surrounded, in this case definitely, by a gothic aura.
Provocation, transgression, shock, often outrageously demonstrative of scientific/technological evolution as in the case of Orlan, are not expedients of the avant-garde, but necessities for overturning the obvious truths of common sense, in order to insinuate in a public increasingly flattened by the colonisation of television, an unconventional rereading of the things of this world. They are above all cognitive openings.
Shock, provocation, spectacle which at times might result from them, have roots which are much more remote than the English artists of the ‘90’s. Roots which extend back at least to the time of Body-Art, Fluxus, the Wiener Aktionismus of the ‘60’s, which upset artistic conventions with the embrace of artlife, the Material-Aktionen of Otto Muehl, with the mystery theatre of Hermann Nitsch, where a real but symbolic blood flows over the sacrificial victims. The psychoanalytical impulse from which such operations derive involves the appropriation of the negative side in order to free oneself from it, while the carnal art of Orlan plumbs the possibility of the transformation of one’s own body, prefiguring the application of bionics, and showing it, by means of the media, to the whole world. As a historical feminist, she also intends to ‘de-fairyise’ the stereotype of feminine beauty, preserved in time for privileged masculine use.
All avant-garde as ill-starred and cursed? From these historical models derive the new offerings of the younger artists. The collages of Elke Krystufek reiterate, with a certain kinship with the pitiless imagery of Cindy Sherman and Nan Goldin, the ancient discourse of exploited femininity, reflected however, obsessively, without false shame in one’s own disenchanted search for identity.
Less than three months ago the artists Goran Bertok and Dean Verzel burned the historical cross of Strunjan at dawn in Slovenia. A blasphemous act, a provocation, shock and spectacle in order to entertain a fleeting public? If the appearance was shocking and spectacular, the meaning digs much deeper. A ritual as the gesture of denial towards the many superstructures, visible and invisible, which oppress mankind; again a cross, atavistic symbol of death, in western culture, which claims life. It is the new ‘scream’ of the contemporary artist who, in the general bewilderment, wants to make its voice heard, beyond the pre-established rules. Just as Munch, at the turn of the 20th Century screamed out his own solitude at the world’s indifference.
the body, sex, anomaly (by Maria Campitelli)
the body, sex, anomaly
Maria Campitelli
the body, sex, transgression, anomaly, the crime story, the scene of the crime, degradation, soft, classical… this and more in Shock & Show.
The exhibition and exploration of the body predominates more than ever in the post-modern age. And it is eros that continues to trigger a censorship linked to a religious prohibitionist culture of catholic and protestant extraction. Films, for example, are still prohibited to minors 14 or 18 years of age if they contain erotic scenes, but not if they contain horrific scenes of blood and violence. The freedom intrinsic to art facilitates direct approaches, which aim at truth and are free of prejudices and attitudes of convenience. Depending on the message which the artist wishes to transmit, he/she will choose the crudest forms of reality in order to reveal an existential truth, or instead veil that message with filtering mediums of various kinds. Due to the taboos which have surrounded Eros for centuries, it is also an area which is quite susceptible to an exasperated voyeurism, to a shock and show which borders on the kitch and pornographic.
However, art never becomes pornographic because the aim is different and far removed from the banality and boredom of the pornographic product. Many of the artists gathered together for this occasion revolve around the pulsing theme of the body and sex, and their related transgressions, penetrating into that area of personal privacy which a conventional culture might keep us from approaching with naturalness. But the artist also seeks to deal with the body which is modifiable by bio-technology and new forms of scientific knowledge, treating it as a new area of creativity. Orlan has been doing this for some time now with his own body, implanting the artificial into the organic, with the aim of designing a new identity for the man of the future. The duo of Bachrach&Kriætofic´ reproduces in a giant blow-up bodies entwined in the act of making love, altered by a recomposition chosen by the artists and computer elaboration. These bodies are captured by a solitary and invisible camera which does not disturb their intimacy but, on the contrary, registers a corporeal physical-ness which assaults us with its disturbing close-ups. However, the purpose is not to astonish but to achieve an effect like that of billboards which are intentionally provocative for advertising purposes – publicity for underwear and swimsuits, for example. Such images, however, no longer elicit even a minimum reaction on the part of an inattentive public, while showing life, as in this instance, instead creates uneasiness, if not dissent.
The presentation of the private arrives at an exasperation bordering on exhibitionism in the stories made up of photos, collages, painting and performances by Elke Krystufek. Here we find an extreme need to confess what is generally kept private, the search for the definition of a female identity with androgynous aspects, often violent, and which flees and transforms itself. According to the critic Gianni Jetzer, this work represents the profaned ideal of a star of the 3rd Millennium. It is a sort of intimate visual diary, which rises up from the unconscious, and in which the embrace of art/life is reaffirmed. Eros becomes a suffering which takes the place of and becomes pleasure in the hallucinated sado-masochistic imagination of Goran Bertok. A tension which borders on the disturbed is fed by unsettling visions in b/w, in which the whiteness of the tormented flesh is exalted by the black of the background, while the thick shadows created by a shaving light add violence to the violence of chains, leather masks and horrendous devices for self-inflicted pain. Here, auto-eroticism becomes the desire for sacrifice and death, evoking certain medieval mystics who wished to emulate Christ’s passion with their own bodies The young artist, Fabiano di Cocco, doubles this effect. A perverse eroticism is linked to the idea of a game, a demented plaything, which in a closely-shot sequence of photos, also in b/w, recounts the onanistic variation of a forbidden tale. But if a deviated eroticism without love may lead to the idea of a sacrificial victim, the same concept can also be expressed through the ‘soft-core’ action and amused irony of Francesco Impellizzeri in the performance entitled ‘oooh’, like an orgasmic sigh, in which he impersonates the affected 18th Cent. gentlewoman, in intimate apparel, overcome by quaking love and desire. Here we find a bubbling sense of spectacle, ambiguously erotic, channelled into the artist’s vocation for constructing characters, from Lady Muc to Rokkodrillo, from Bodyguard to the Candied Angel, TangetArt, Unpopop and into which he enters with a surprising spirit of transformation. By means of these personages, he shatters clichés and mocks the world of show business, especially that of singing stars, and the ambiguity which we bear within us. ‘oooh’ is an invitation to voyeurism which continues with the Triestine videomaker and performer Paolo Ravalico Scerri.
The explosion of multiplied video events, supported by elementary musical phrases, which will intersect at the Miela Theatre on the exhibition’s opening night, presents us with an obsessive self-referentiality bodies rendered languid by amorous scansions and condensed into ‘Love Show’, ‘Eyes’, ‘Exhibition’, ‘Personal Love’, ‘Who-Man’ and ‘Gigolo’, here presented in unison and in a single, large location. The protagonist is the artist himself, whose body, in the soft, slow-motion movements, gives and asks for ‘love’, and which serves as counterpoint to synthesis of these images in a fine sequence of designs taken from the videos, with insistent and unmistakable blue/viola tints. The languor of an eros of sexual ambiguity is echoed by the celebrated duo Pierre et Gilles who present the work ‘Didier’. Here, their distinctive, fictional vocabulary is composed of a concentrate of lucid mawkishness, glamour which transcends into kitch, a glossy popular imagination often imbued with the allure of the Orient, sickening piety and mild blasphemy (where the tears and smiles of lovers of the ‘30’s abound), false, ecstatic raptures and excessive bloodstains on chaste, uncorrupted faces, and precious, antiqued picture-frames. With the addition, in recent works, of a nocturnal emphasis which creates an aura of mystery. But the body and the eroticism connected with it have other variants. Antonella Bersani has focussed her attention on a single anatomical apparatus (which, however, may be made to allude to other parts of the body): shiny, rosy, fleshy, with protuberances and a deep cavity at its centre (and which the author defines ‘bodies’). These ‘vulva’ are scattered everywhere, in precious boxes, between pillows, on a table among flowers, in a Sicilian cart. Clones of an ineluctable and ubiquitous reality and dominant thought, and the irony of a hyper-sexuality which is omni-evident and therefore devalued.
In any case, an amused commentary on a social behaviour which becomes paradox. The corporeal image also bursts forth in the works of the new performers, from Kulik to Zhang Huan. Oleg Kulik has gained his place in the history of contemporary art for his identification with a dog, and for having imagined a new form of interpersonal relationships modelled on the behaviour of animals, who are more spontaneous and instinctive than humans. The curator Rosa Martinez considers him ‘a delicate artist who reflects our animal capacity to love’. The dog is also unfailingly present in the photos, as both witness and collaborator in the artist’s astonishing demonstrative actions. Zhang Huan takes up the extreme experiences of Chris Burden and Carolee Schremann in the ‘70’s, with occidental conceptualism providing the scaffolding for his actions. The basic concept is that of appropriating the harsh suffering which dominates the world by experiencing it directly upon one’s own body; an experimentation with the limits of resistance, an openness to a knowledge of life which cannot be attained any other way. The photographs document these endurance tests and at the same time reveal the absolute detachment of the artist, in the imperturbable expression, entirely oriental, of his face. One of his most famous operations is the famous ‘12 square metres’ in which, covered with honey and fish oil, he allows himself to attract hundreds of flies, which even crawl into his nasal cavity and ears, while he remains seated immobile on a latrine in Peking’s East Village. Jake and Dinos Chapman’s approach to the body is completely anomalous: with the twin girls they focus on freaks of nature, monsters, where sexual obsession is to be found in the male genitals which protrude from their faces. However, blood, torture and horror are also present, culminating in Hell, the maniacal work shown in ‘Apocalypse’ in 2001, where it was the central work of an exhibition which could not repeat the success of the previous ‘Sensation’. The vocation for horror, the perfect simulation of ferocious cruelty, such as that of ‘Cyber Ironic Man’, which duplicates a Chinese martyrdom and echoes the atrocities of Goya’s ‘Disasters of War’, is the indelible trademark of the terrible bothers, causing the critic Wigram (co-curator, together with Rosenthal, of ‘Apocalypse’) to declare: ‘By now, shock has become a part of artistic materials. And this is so because its very concept has become a material’ (Flash Art, Dec. 2001 – Jan. 2001, n. 225). But the Chapman brothers – who do nothing other than transfer onto the symbolic level of art what occurs everyday around the world – thumb their noses at all this seriousness, and their works abound with the grotesque (such that the excess of tragedy becomes comical) and an irresistible irony. Erwin Olaf has also repeatedly traversed the landscape of the body, and uses it in his photographs in various contexts. Olaf’s work stems from a completely Nordic, specifically Dutch culture of photographing the things of this world with a lucid and pitiless objectivity. He enters into the various contexts with irony, from the famous and merciless ‘pin-up girls’ impersonated by individuals well along in years and endowed with trembling cellulite, to a fashion which is impregnated with a very different glamour and highlights the loss of identity among the famous names of haut couture, to the more recent, spectacular and phantasmagoric compositions of the ‘Paradise’ cycle and the portraits displayed here, where everything explodes ‘over the top’. There is also the artist who carries out a narrative process with the body, based on the comic-strip-like photo-story of the ‘70’s.
Lorena Matic has already taken this path, elevating herself to the protagonist of these stories. This is a means for multiplying one’s own identity, in an already proven area, while at the same time exploring the mutability of identity with a direct ‘take’ on existential events. There is no metaphor in ‘Psychadelic sequence’, which seeks to sum up the themes of sexual freedom that exploded with the feminist battles of the ‘70’s – or if there is a metaphor, it is that of a fiction which degenerates into splatter. It is reality itself which is placed into question, not without irony, in opposition to the ordinary madness and daily slaughter offered by the media. What instead permeates Giuseppe De Cesco’s ingenious artefacts is a biting sarcasm. The artist amuses himself by manipulating all conceivable materials, creating objects which are often self-propelled and emit sounds, or settings which upset the rules and the ethical-social structures which normally govern behaviours. It is a way of redoing things, often based on reminiscences of films, and projecting them fantastically onto a plane of renewed logical dynamics. The installation in this exhibition, with the disorienting and amusing title of ‘Double or nothing?’, is set inside a shower (Hitchcock’s ‘Psycho’) where the gurgling of water, a large bubble suspended over the drain which is emphasised by an internal light and has hair suspended over it, not only serves to indicate the normal use of this domestic fixture, but also a possible crime scene and the investigative systems for collecting evidence. The ways to astound are infinite, and the Croatian Igor Kuduz has chosen the path of grotesque anomaly with his series of ‘Capricci’ (‘Freaks’) which definitely have little in common with those of Guardi. The cycle of photographs which appears under this title is a delightful divertissement injected with large doses of an irony (a constant in Kuduz’s production) that amuses itself at humanity’s expense. Freaks of nature, all strictly invented, are grafted onto a series of personages who are altered strikingly as a result.
Like Franck Lantini, stiffly erect in a military tunic, and provided with three legs, or the ‘prosperous’ lady with three breasts. Each figure comes with antiqued details as accessories, from the posing of the images, to the gold-painted frames with the metal plaque and title beneath. This project makes one smile, and is far removed from the black humour of the English. Robert Gligorov is a master of shock. His research insists above all on the possibility of transgressing every form of common sense and still astounds by means of a disruptive inventive fantasy, as if it were the last chance for an expression which has already consumed everything. The preferred territory for this exploration is the body, the site of natural and unnatural mutations: a body whose inevitable defacement is prefigured by the operation ‘Waiting I’ and ‘Waiting II’: a body inseparable from the definitive transformation of death, and which the artist documents (surpassing his own limits) in the video of the performance in which he hangs himself. Using the technique of morphing, the artist has already prefigured the possible contaminations among the animal, vegetable and mineral realms of a post-human and post-geological era. However, the new artists are not limited to only violent forms of expression. There are other, ‘softer’ ways to amaze, like those used by the photographer Fritz Kok, which represent the actuality of a typically Dutch current of photography that began with Inez Van Lamsveerde’s disturbing presentation of children forced to become adults. Kok’s vision is a surreal world of icy fiction which transports us into dream, however with the tangibility of apparitions strategically placed in real settings, similar to laboratories for scientific research, which resemble tubs or swimming pools.
The key figure is a mermaid, a seductive, sophisticated and ascetic hybrid which seems the result of laborious research in genetic engineering, and inspired by cover-girl glamour (Kok is a fashion photographer). She seems an alien fallen from another planet, with hyper- realistic connotations, subjected to continuous medical controls in order to verify her uncertain capacity for survival. The works of Genia Chef and Ricardo Cinalli emerge from an opposite terrain. The former, by means of photographic assemblies elaborated by computer, reflects on the loss of the world of beauty created by classical antiquity, re-evoked in a crepuscular and decadent fantasy setting, which also contains the real human presence reabsorbed in the suggestion of environmental reconstruction. For this exhibition, Genia Chef has created a work inspired by Arnold Boecklin’s famous ‘Island of the Dead’, painted a century ago. If Boecklin celebrates the decline of the Greco-Roman aesthetic, Genia Chef transposes it into the modern and contemporary eras, placing it alongside historical realities such as Lenin, Hitler, the Metropolitan Museum of New York and the Old National Gallery of Berlin. The intention is that of identifying the constant human archetypes, in the historical-aesthetic recognition, which insist on violence, destruction or death. The basic shock in this instance is tempered by a symbolic vision through the aestheticconceptual filter. Ricardo Cinalli, from Argentina, is the powerful Michelangelo of the contemporary age. His knowledge and ability to reproduce the human body reaches spectacular heights. His landscapes populated by arms, feet and hands refer to the human muddle and morass of the world’s great cities. The obsessive celebration of the human body, still free of technological hybridisations, which in asphyxiated tangled heaps like ‘The Human Pyramid, Homage to the Millenium’ which is doubled in the mirror of water extending before it, alludes to dramatic, psycho/physical human cramming of the endless urban conglomerates. It is an unlimited revision of classical and renaissance culture and of De Chirico’s post-metaphysics, with the tension and linguistic freedom of the 3rd Millennium.
There is another terrain upon where one can find horror and create shock: that of social marginalisation. The Ukrainian artist, Sergej Bratkov, documents an ‘unaltered portrait of crude reality’, which we can situate in the current of the new photography coming out of Eastern Europe. The group of photographs, taken from the series ‘Bad Time Stories’, dates from the ‘Children’s Horror’ project of ’98. With a series of mise en scene and degraded locations it testifies to the dramatic reality of street children, orphans and homeless, the ‘losers’ of yesterday and today who are united by a common destiny under the Soviet regime and in today’s Russia. By means of an exasperated fiction it summarises the absurd rituals of the ‘young soviet pioneers’ when children were trained according to the Soviet codes. The grotesque irony precipitates the ritualistic performances into horror splatter. Rather than adjust to the banality and virtual stereotypes of B horror movies which infest post-communist Russia, it is preferable to reconstruct the real tragedy which has overwhelmed, in misery and degradation, a childhood abandoned to itself. The veiled denunciation or disenchanted constating of the state of things, both public and private, acts as a leaven in the works of Guillermo Giampietro. Daily rituals and superficial or profound sensations are superimposed upon one another in computer-elaborated visual compositions. The use-object is associated with the carnality which insinuates itself, in superimposed, complementary moments, with the rhythms of fiction, but also of the mobility of thought. The praise of disaster, echoing Blanchot (L’ecriture de le desastre), has become the ambiguity of meaning, in the enunciations, which constitute the subtle structure of a discourse open to different interpretations, with social-political references, in the awareness of the impossibility of capturing a definitive reality.
‘Despise the enigma of future terror’ is the sibylline title of the allusive work presented here, which forms part of an expanded project extended over time, which ranges from a radio programme to performance. Ennio Bertrand’s work ‘Under Attack’, identifies itself with the most incredible shock of the present time: the attack against the Twin Towers. For some time now, Ennio Bertrand has been using the most advanced technological media, with which he filters his knowledge and emotions. ‘Under Attack’ is, in fact, the first application of an interactive innovation elaborated by the artist himself. The technique, which makes it possible to interact with the video images, is called Remote Stills and establishes a direct, close link with the public by means of a computer and an ultrasound device which locates the position of the spectator, and is connected with a special software. Contrary to other interactive interventions in which it is the spectator who determines the modifications, here the spectator is, as it were, swallowed up and subjected to the images of the video which they find themselves commanding involuntarily. The observer’s movements change the order of the visual story being recounted. In moving forward or back, or standing still, the video follows us and makes us relive from within and as protagonists the tragedy of New York transmitted by CNN with the unforgettable title of ‘America under Attack’. Francesco Scialò’s shock is of a different nature. Attentive to the problems and devastating events which lacerate the world and humanity, he converts them into personal reflections/works somewhere between sculpture and installation. His is a response to the frightening chain of murders, rapes, paedophilia and destruction which television offers up on a daily basis. However, Scialò also dedicates himself to lighter themes, which he treats with an ironic touch. His distinctive characteristic (though less evident in recent works, where it has been replaced by structural methods that utilise reclaimed materials, primarily fabrics) is illumination, in a Christmas tree-like effect which transforms his works from grim tragedies to spectacles. However, the illumination produced by countless tiny bulbs distributed over the entire work also suggests an atmosphere of warmth, a sublimating and cathartic breath, which has the complicity of a playful smile. They overcome the reality of evil and ascend towards a reality of dream, as in ‘This is your sacrifice’, where the homicidal act of the hooded man (a satanic ritual?) loses some of its violence because bathed in radiant illumination. Sandy Skoglund is the queen of environmental transformation with her invasions of swarms of animals, cats, squirrels and horrible snakes while an unaware humanity continues to perform undisturbed its customary tasks. Her highly distinctive photographs are the result of laborious mis en scenes which compose the domestic nightmare that assails us unawares. Trauma-less symbols of malaise and phobias give substance to disassociations and incongruencies which in the most recent works are accented by the hiatus between real figures and fictitious images – clones or replicants from other worlds – as in ‘Breathing Glass’ (2000).
A further development is the rain of popcorn which covers real persons and dummies, transforming them into photographs of a freezing winter climate or concrete installations. Paul M. Smith is another enfant terrible of the English school whose choices are less death-oriented than those of his colleagues of some years before, and aim primarily at the thrillingly spectacular. The ‘Actions’ cycle of photographs enclosed in light-boxes appears as even more ascetic and unreal than the previous ‘Photoshop’, and replays the mythic filmic gestures of James Bond (while exploiting the artist’s experience as a British army photographer when he was young). With a marvellous head-over-heels effect he depicts himself (for he is the protagonist) flying through the air, from building to building, or leaping on us from a helicopter, an action which paraphrases ‘Jumping’, the extreme, deathdefying sport so popular today. Shocking images which can be traced back to the young Mathew Barney who scaled the smooth walls of galleries with the aid of strange devices, thereby bringing the reality of sport into the sacred confines of art. As we noted earlier, there is a coincidence here, symptomatic of our time, between extreme actions and the need for art to go ‘over the top’ in the (illusory?) attempt to galvanise a collective consciousness sunk into total apathy. Death, or rather the decomposition which awaits all organic matter, also forms the subject of Richard Crow’s performances. Since the late ‘80’s he has worked in various languages, from sculpture to video, film to audio production, and all these elements often converge and intertwine in his performances. The central node of his research is the concept of ‘Rot’, which takes its cue from Marx’s phrase: ‘in history, as in nature, the rotten is the laboratory of life’. This also recalls some of Greenaway’s maxims, especially in the ‘Zoo of Venus’, and produces objects-sculptures which, starting from the point of their decomposition, when their usecycle is over, can become something else. The state of death is thereby elevated to a new life, by means of an aesthetic itinerary. These found objects which contain stratified and real stories, in the aesthetic transposition maintain their evocative impetus and in performance become ‘performative objects’, that is, they have an active role which has the same importance as that of the performers. ‘Executor’, which the exhibition has brought to Trieste, implies a concept of ‘performative persona’, playing on the multiple meanings of the word which takes on different roles (from the executor of a will to the executioner), and especially that of the figure of the performer who executes an artistic project. The idea of death also circulates in Dean Verzel’s plans for large installations, though linked to life and knowledge, as in ‘The triumph of death, from the book to cosmic experience’ (’97).
Here, the accumulation of impenetrable books, each sealed by a stellar life, encloses a hidden knowledge which is revealed only by the book with P. Breughel’s ‘The triumph of death’. The symbol of the cross, a remote signal from the most distant past, is now the object of a more intense research by this artist which goes beyond the Christian reference. A symbol which borders on the most tangible forms of reality, like the project of the great cross of perspex filled with water in which the artist will immerse himself in order to renew a sacrifice. However, this performance is also a test of resistance, in the best tradition of body-art, an presents an amplified exploration of human potential, both physical and psychological. The symbolism of the cross appeared recently in the performance of the burning of a 17th Century cross, conducted together with Bertok, in Strunjan, Slovenia. According to the philosopher Mlakar who spoke at the event, together with the provocation tinged with protest before the obscure powers which govern men beyond their wills, the burning cross is the proof of God’s truth, who rises again from the ruins of the cross, which was burnt because a tool of extreme evil, and upon which Christ died.
an exhibition as antidote (by Lorenzo Michelli)
an exhibition as antidote
Lorenzo Michelli
I am in favour of art with which one can hammer, mend, sew, paste and polish. I am in favour of an art which tells you what time it is and helps old ladies across the street. I am in favour of the art of white and red gasoline pumps and enticing advertisements for cookies’. These phrases by Claes Oldenburg included in the book by Lea Vergine “From the Informal to Body Art” indicate a precise expressive identity, that of Pop Art, which was linked almost obsessively to the everyday and commonplace. At the ’64 Biannual it eliminated all competitors and sealed the victory of American over continental art. This meant disorientation for European art of the same period, a sense of vertigo for the simple greatness of American artistic creation which consigned any other possible experience to the sidelines. Art joined to the everyday attained the level of the sublime. It invented new visual models and prefigured illusions for a possible present-future to be invented.
It was also the period in which one prepared that experience of the body as a unit to test to the limit, to feel and communicate in an alternative fashion: works which were also shocking and extreme. One tended towards the miscellany of languages under the sign of a new form of artistic-ness: the new, or better, the extremely new, practised by means of the ars pulchre cogitandi (art to reason beautifully). In arriving at the contemporary, art manifests an increasingly exasperated eclecticism, sole true general tendency in contemporary research which confuses itself with the macroscopic, globalising tendency of the mass media. With the springing of the confines of local research, the artist confronts the Other in a manner which is total, seeking anchorage and toeholds in order to enter into relation with expressive research around the world. There is no lack of opportunities: beginning with Internet which connects one with realities which are distant yet near. What is missing however, is the experience of journey in order to arrive at this encounter; space and time are reduced to a minimum and the idea of being with anyone, anywhere prevails. The title of the Biannual of Szeemann is certainly one of the most accurate for indicating the macroscopic signs which connote society now. Art is also increasingly linked to a form of spectacle which prefers it to be rich, glamorous and glossy.
The projects which succeed are those which are media-genic, and which can be viewed collectively thanks to the mass-media. The great markets, metropolitan centres, the artists and galleries which impose a good product which is new but bound by certain rules: this is what makes for success. The fairs and great exhibitions are packed with a public which wanders uncertainly among offers which confound themselves with one another, which cite one another and either attempt an original leap forward or fall back upon anachronistic subjects. In the midst of this confused plurality of intentions, remaining vigilant is an attitude advisable not only for those who live in the art world, which will always find the support it needs because essential and necessary to human identity, but also for anyone who is attentive to the social and political transformations taking place in the world today. Art anticipates and discourses about society, culling images which are upsetting, disquieting, alarming and pathological. Even when it initiates a cathartic discourse, it is not dominated by negative values but instead seeks, with the same means recognisable by all, to identify an escape route with the aim of overcoming behaviours based on prejudicial rules. One must find the most appropriate way of intervening in the territory where one wishes to work, based on the actual, existing conditions. Precisely because of its intrinsic intention of causing a commotion (while also offering an alternative to art which is merely shouted or for effect), Shock & Show originates with the need to enter into the social fabric of Trieste in order to manifest the desire of being accepted by the other, and to repeat a continuity with artistic experiences already recognised and carried out in these past years and demonstrate the desire of contemporary expression in a city particularly oriented towards the past and bound by conventions. Trieste, whose cultural heritage is constituted by its fascinating structure and the minds who operated within it, needs a rereading in order to delineate a new identity for the century just begun.
It must be educated to ‘good contemporary living’, by seeking to extrapolate what is positive in international visual culture and harmonise this culture with the specific nature of the territory, its traditions and its signs. One of the nodes around which Shock & Show was conceived is its ramification in different cultural spaces. This was done in order to reach a diversified and wider public but also with the aim of transforming itself into an itinerary, a ‘walk’ through art with a high, emotional impact. The artists brought together here distance themselves from the so-called historicalconceptual, so cold and mathematical, in order to constitute, reunited, a collection which speaks of an imagination galvanised by the technological era, which produces a plethora of visions for an aesthetic everyday, a sort of antidote to stereotypes.
Robert Gligorov
Robert Gligorov
Waiting I – Waiting II, 1997
cibachrome on aluminium, edition of 3, cm 130×110
Courtesy LipanjePuntin artecontemporanea
Nella rincorsa allo shock Robert Gligorov è maestro. La sua ricerca insiste soprattutto sulla possibilità, tramite una dirompente fantasia inventiva, di travalicare ogni senso comune, di stupire ancora, come ultima chance di un’espressività che ha già tutto consumato. Ed il corpo sede di mutazioni naturali ed innaturali, è il luogo prediletto per esercitare questa esplorazione. Un corpo il cui inevitabile disfacimento è prefigurato appunto con l’operazione Waiting I e II. Un corpo che non può disgiungersi dalla trasformazione definitiva della morte, e che l’artista vorrebbe documentare, oltre il suo limite, nel video della performance in cui s’impicca. E con la tecnica del morphing l’artista ha già prefigurato le possibili contaminazioni tra regno animale, vegetale, minerale per un’era postumana e postgeologica.
Curriculum
Zhang Huan
Zhang Huan
12 Square Meters, 1994
b/w fiber based print, edition of 15, cm 169×117,5
Courtesy LipanjePuntin artecontemporanea
Zhang Huan si riallaccia alle esperienze estreme di Chris Burden, di Carolee Schremann degli anni ’70; il concettualismo occidentale è il supporto delle sue azioni. Il concetto di base è quello di appropriarsi dell’aspra sofferenza che soggioga il mondo, provandola direttamente sul proprio corpo. E’ la sperimentazione del limite di resistenza, l’apertura ad una conoscenza di vita non altrimenti raggiungibile. Le fotografie testimoniano queste prove di sopportazione e nello stesso tempo rivelano l’assoluto distacco dell’artista, nell’espressione imperturbabile, tutta orientale, della sua faccia. Una delle operazioni più famose è “7 metri quadrati”, dove, ricoperto di miele ed olio di pesce si lascia attrarre da centinaia di mosche che gli penetrano fino nelle cavità nasali e nelle orecchie, seduto immobile in una latrina dell’East Village di Pechino.
Curriculum
Francesco Impellizzeri
Francesco Impellizzeri
“…o0OH!!!” 1997/2002
installation, variable dimensions
Courtesy Il Ponte Contemporanea
Se l’erotismo deviato in assenza di amore può condurre all’idea di vittima sacrificale, esso si esprime anche con l’azione soft, con l’ironia divertita di un Francesco Impellizzeri, che con la performance dal titolo “oooh”, come un soffio d’orgasmo, impersona la leziosa dama del ‘700, in corsetteria intima, vinta da turbe d’amore e desiderio. Spettacolarità frizzante, ambiguamente erotica, incanalata nella vocazione dell’artista a costruire personaggi, da Lady Muc a Rokkodrillo, da BodyGuard a L’Angelo Candito, TangetArt, Unpopop…in cui si cala con sorprendente spirito trasformista. Con essi frantuma luoghi comuni, ironizza sul mondo dello spettacolo, specie la cantante star, sulle ambiguità che ci portiamo dentro.
Curriculum
Paolo Ravalico Scerri
Paolo Ravalico Scerri
Eyes, 2002
video
Courtesy Nuova Icona
L’invito al voyeurismo prosegue con il videomaker e performer triestino Paolo Ravalico Scerri. L’esplosione di eventi video moltiplicati, sostenuti da elementari frasi musicali, che s’incrociano al Teatro Miela nella serata inaugurale, propongono ancora, con ossessiva autoreferenzialità, corpi illanguiditi nelle scansioni amorose, condensate in “Love Show”, “Eyes”, “Exhibition”, “Personal Love”, Who-man”, “Gigolò”, montati all’unisono, in un unico grande environment. Protagonista è l’autore, il cui corpo, nelle morbide movenze en ralenti, dona e chiede “love”. Contrappunto alle immagini di sintesi, una bella sequenza di disegni, tratti dai video, dalle insistenti ed inconfondibili colorazioni blu/viola.
Oleg Kulik
Oleg Kulik
Marriage, 2000
digital print, edition of 6, cm 116×84
Courtesy LipanjePuntin artecontemporanea
Oleg Kulik passa alla storia dell’arte contemporanea per essersi identificato in un cane, per aver immaginato un nuovo assetto relazionale tinterpersonale modellato sulle abitudini animali, più spontanee ed istintuali di quelle umane. La curatrice Rosa Martinez lo ritiene “un artista delicato che riflette sulla nostra capacità animale di amare”. E il cane figura immancabilmente anche nelle foto, testimone e collaboratore delle stupefacenti azioni dimostrative dell’artista.
Curriculum
Guillermo Giampietro
Guillermo Giampietro
Disprezzate l’enigma del terrore futuro, 2002
photography, cm120x80
Rituali quotidiani e sensazioni epidermiche o profonde si accavallano nelle composizioni visive elaborate al computer. L’oggetto d’uso si associa alla carnalità che vi si insinua, in una sovrapposizione di momenti complementari, secondo ritmi della fiction ma anche della mobilità del pensiero. L’elogio del disastro una volta, sull’eco di Blanchot (“La scrittura del disastro”) ora l’ambiguità di senso, negli enunciati, costituiscono la trama sottile di un discorso aperto a interpretazioni diverse, con rimandi socio-politici, nella consapevolezza dell’impossibilità di catturare una realtà definitiva. “Disprezzate l’enigma del terrore futuro” è il titolo sibillino dell’opera allusiva qui presentata; fa parte di un progetto espansivo costituito da momenti diversi, distribuiti nel tempo, da un programma radiofonico alla performance.
Curriculum
Fabiano Di Cocco
Fabiano Di Cocco
Senza titolo, 2001
18 b/w photographs, treated with a chemical process, unique piece, cm 25×350
Courtesy LipanjePuntin artecontemporanea
L’eros perverso si coniuga con il gioco, il trastullo demenziale, che in una serrata sequenza di foto pure in b/n dipana un racconto proibito di variante onanistica.
Curriculum
Elke Krystufek
Elke Krystufek
Migros collages, 1999
mixed media, edition 1, cm 30×36
Courtesy Georg Kargl
La presentazione del privato raggiunge l’esasperazione fino all’esibizionismo nei racconti tra foto, collages, pittura, performances di Elke Krystufek. Un bisogno estremo di confessare quello che ciascuno tiene per sé, cercando la definizione di un’identità femminile, dagli aspetti androgini, spesso violenti, che sfugge e si trasforma. Il critico Gianni Jetzer ha detto che rappresenta l’ideale profanato di una star del III millennio. Il suo è una sorta di diario visivo intimo, che sale dall’inconscio, in cui si ribadisce l’abbraccio arte-vita.
Curriculum
Erwin Olaf
Erwin Olaf
The Portrait 1 – Club Paradise, 2001
c-print, cm 70×50
Courtesy B&D Studio
Erwin Olaf ha attraversato ripetutamente il landscape corporeo utilizzandolo, nelle sue fotografie, in contesti diversi. Olaf discende da una cultura tutta nordica, specificatamente olandese di fotografare le cose del mondo, con lucida spietata obiettività, intaccando con flussi ironici vari ambiti, da quello famoso ed impietoso delle pi-up-girls , impersonato da soggetti avanti negli anni, per lo più dotati di tremolante cellulite, a quello della moda, impregnato di ben altro glamour, che evidenziava la perdita d’identità tra le griffes della haut couture, per giungere recentemente a spettacolari, fantasmagoriche composizioni immaginifiche come nel ciclo Paradise e agli attuali ritratti, in cui tutto esplode sopra le righe.
Curriculum
Sandy Skoglund
Sandy Skoglund
Gathering Paradise, 1991
cibachrome, cm 120×153,9 (detail)
Courtesy B&D Studio
Sandy Skoglund è la regina delle trasformazioni ambientali con le sue invasioni di frotte di animali, gatti, scoiattoli, orridi serpenti, mentre l’umanità ignara o inconsapevole continua a svolgere indisturbata le sue mansioni di sempre. Le sue fotografie, distintive tra tutte, sono il frutto di laboriose “mise en scene” per costruire l’incubo domestico che ci assale a nostra insaputa., Simboli, senza traumi, di malesseri e fobie, materializzano dissociazioni ed incongruenze che , nei lavori più recenti si accentuano con lo iato tra figure reali capovolte ed immagini fittizie – cloni o replicanti di altri mondi – come in “Breathing Glass” (2000). Un’ulteriore svolta sta nella pioggia di popcorn che ricopre personaggi reali e maquettes per trasformarsi in fotografie dall’algido clima invernale oppure in concrete installazioni.
Curriculum
Paul M Smith
Paul M Smith
Elicopter, 2000
light box, cm 100x130x10
Courtesy B&D Studio
Paul M Smith è un altro enfant terribile della scuola inglese. Ma le sue scelte sono meno mortifere dei suoi colleghi di qualche anno prima, puntando soprattutto alla spettacolarità spericolata. Il ciclo “Actions”, fotografie racchiuse in light-box, sì da renderle ancor più asettiche ed irreali di quello che già può fare il passaggio in Photoshop, ripropone in qualche modo le mitiche gesta filmiche di James Bond, sfruttando anche l’esperienza di fotoreporter dell’esercito britannico che l’artista ha svolto da giovanissimo. Con mirabolanti sotto in su, si fa cogliere (è lui il protagonista) mentre vola nel cielo, issato da opportune gru invisibili, da un palazzo all’altro, o mentre si lancia dall’elicottero addosso a noi, parafrasando la pratica sportiva col brivido della morte oggi di moda., “Jumping”. Immagine shock : anche il giovane Matthew Barney aveva iniziato, arrampicandosi sulle liscie pareti delle gallerie, con strani marchingegni, portando la concretezza dello sport nel sacro recinto dell’arte.
Come si diceva all’inizio, c’è da registrare questa coincidenza, sintomatica del nostro tempo, tra azioni estreme e bisogno dell’arte di cimentarsi oltre le righe, nel tentativo (illusorio?) di scuotere l’appiattimento delle coscienze intorpidite.
Curriculum
Sergej Bratkov
Sergej Bratkov
Bad time stories, 2000
c-print on aluminium, edition of 5, cm 50×70
L’artista russo Sergej Bratkov si propone di documentare, nel filone della nuova fotografia che proviene dall’Est “un ritratto non alterato della cruda realtà” Il grupo di fotografie, tratto dalla serie “Bad Time Stories” risale al progetto “Children’s Horror” del ’98. Testimonia, con delle “mise en scene” in luoghi degradati, la drammatica realtà dei bambini della strada, orfani o senza casa, i “perdenti” di ieri e, di oggi, accomunati dal medesimo destino sia durante il regime sovietico che dopo. Riesuma, con una fiction esasperata, gli assurdi rituali inscenati dai “giovani pionieri sovietici” quando i bambini venivano inquadrati secondo i codici del Soviet. L’ironia grottesca precipita le performances ritualistiche in horror splatter. Piuttosto che adeguarsi alle banalità e agli stereotipi virtuali degli horror movies di serie B che infestano la Russia postcomunista, è preferibile ricostruire la tragedia reale che ha investito e continua ad investire, nella miseria e nel degrado, l’infanzia abbandonata a se stessa
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Goran Bertok
Goran Bertok
N° II, From Series n. 23, 2000
b/w photography toner selenio, cm 30×30
L’eros diviene sofferenza che sostituisce e si fa piacere nell’allucinato immaginario sado-maso di Goran Bertok. La tensione fino al disturbo si alimenta di sconvolgenti visioni in b/n, dove il biancore delle carni martoriate si esalta nel nero dello sfondo, nelle ombre spesse da illuminazione radente che accumulano violenza sulla violenza di catene, maschere di cuoio, orrendi marchingegni di autosofferenza. L’autoerotismo si traduce in desiderio di sacrificio e morte, evocando certi mistici medioevali che volevano ripetere su di sè la passione di Cristo
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Giuseppe De Cesco
Giuseppe De Cesco
L’ascia o raddoppia, 2002
b/w photography, cm 60×51,5
Il sarcasmo graffiante attraversa invece i manufatti ingegnosi di Beppino De Cesco. L’artista si diverte a manipolare tutti i materiai possibili, creando oggetti, spesso semoventi e anche in grado di emettere suoni, o ambientazioni, che stravolgono le regole, le strutture etico-sociali che governano d’abitudine i comportamenti. E’ un rifare le cose, spesso sul filo di reminiscenze filmiche, proiettandole fantasticamente su di un piano di rinnovate dinamiche logiche. L’installazione per questa mostra, dal titolo spiazzante e divertito di “L’ascia o raddoppia?”, ci conduce all’interno di una doccia (“Psycho” di Hitckok) dove il gorgoglio dell’acqua, una grande bolla sospesa sullo scarico, enfatizzata da una luce interna, dei capelli sospesi sopra, parlano non solo dell’uso normale che di questo attrezzo domestico si fa, ma di un possibile luogo del delitto e dei sistemi di investigazione per recuperarne le prove.
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Igor Kuduz
Igor Kuduz
Frank Lantini, 1996
b/w photography, wooden frame, metal plate, cm 35×40,5
Le vie della stupefazione sono infinite, quella del croato Igor Kuduz si spinge sulla strada dell’anomalia grottesca, inscenando una serie di “Capricci” (Freaks) che certo con quelli del Guardi non hanno nulla a che vedere. Il ciclo di fotografie che va sotto questo titolo è come un godibile divertissement, percorso da abbondanti dosi di ironia, (un aspetto costante nella produzione di Kuduz) che si prende gioco dell’umanità. Degli scherzi di natura, rigorosamente inventati, vengono affibbiati ad una serie di personaggi, che si ritrovano in qualche modo vistosamente alterati. Come il Franck Lantini, impettito in giubba militare, munito di tre gambe, o la sapida donna prosperosa fornita di tre mammelle. Il tutto accessoriato da dettagli anticati, dal viraggio delle immagini, alle cornici dorate, alla targhetta metallica sottostante con il titolo. Uno show a fior di pelle che induce al sorriso, ben lontano dal black humor stile inglese.
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Lorena Matic
Lorena Matic
Sequenza psichedelica, 2002
Picture story in eight digital print on aluminium and wood, cm 25×38
C’è chi col corpo svolge un processo narrativo, riesumando le modalità popolari del fotoromanzo fumettato degli anni ’70. Lorena Matic ha già percorso questa via, elevando se stessa a protagonista dei racconti. E’ un modo per moltiplicare la propria identità, secondo una linea di perlustrazione già sperimentata, e nello stesso tempo esplorare la sua mutevolezza con una presa diretta di vicende esistenziali. Non c’è metafora in questa “Sequenza psichedelica” – che vuole riesumare le tematiche della libertà sessuale esplosa con le battaglie femministe negli anni ’70 – se non nella fiction che precipita nello splatter. E’ la realtà stessa che viene posta in gioco, non senza ironia, a petto dell’ordinaria follia e della quotidiana carneficina proposta dai media
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Pierre et Gilles
Pierre et Gilles
Didier, 1994
photography and mixed media, cm 121×95
Courtesy Vittorio Hassan Collection, “Arte Energy”
Pierre et Gilles qui presente con l’opera “Didier”. Un concentrato di lucida svenevolezza, di glamour che trascende nel kitsh, di patinato immaginario popolare in cui spesso risuona l’incanto d’Oriente, di stucchevole pietismo, di leggiadra blasfemia – dove si sprecano le lacrime, i sorrisi da innamorati anni’30 – di falsi rapimenti estatici, di macchie di sangue troppo smaccate su casti visi incorrotti, di preziose cornici anticate, tutto ciò costituisce il loro inconfondibile vocabolario della finzione. Con in più, nelle opere recenti, un accentuazione notturna che infonde un alone di mistero.
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Richard Crow
Richard Crow
Executor
performance
Di morte, anzi di disfacimento cui è destinata la materia organica, parlano anche le performances di Richard Crow. Praticando dalla fine degli anni ’80 diversi linguaggi, dalla scultura al video, dal film alla produzione audio, li fa spesso confluire, tra loro intrecciati, nelle sue performances. Punto nodale della sua ricerca è il concetto di “Rot” (marcio, putrefatto) che si riallaccia all’assunto di Marx : “In history, as in nature, the rotten is the laboratory of life”. Simile in questo a certi assunti di Greenaway, dichiarati specie nello “Zoo di Venere”, produce oggetti-sculture, partendo dalla loro decomposizione, da quando, esaurito il loro ciclo utilitario, possono diventare un’altra cosa. Eleva così lo stato di morte ad una nuova vita, tramite il percorso estetico. Questi oggetti trovati che contengono stratificate storie reali, nella trasposizione estetica mantengono la loro pulsione evocativa e nella performance divengono “performative objects”, cioè svolgono un ruolo attivo con la medesima importanza dei performer. “Executor”, portato a Trieste, implica il concetto di “performative persona”, giocando sulla polivalenza della parola stessa che investe ruoli diversi (dalll’esecutore testamentario al giustiziere) e in primo luogo la figura del performer che esegue un progetto artistico.
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Ricardo Cinalli
Ricardo Cinalli
San Pantaleon in a moon landscape, 1999
oil on canvas, cm 170×125
Courtesy Il Planetario
L’argentino Ricardo Cinalli è il possente Michelangelo dell’età contemporanea. La sua conoscenza e capacità riproduttiva del corpo umano tocca vette spettacolari. I suoi landscapes popolati di braccia, piedi, mani rimandano all’affastellamento umano delle metropoli del pianeta. E’ la celebrazione ossessiva del corpo umano, esente ancora da ibridazioni tecnologiche, che negli asfittici grovigli come in “The human Pyramid, Homage to the Millenium”, sdoppiato nell’antistante specchio d’acqua, alludono ad una drammatica costipazione psico/fisica cui l’umanità è costretta negli sterminati agglomerati urbani. È una revisione illimitata della cultura classica, di quella rinascimentale, di De Chirico postmetafisico, con l’a tensione e la libertà linguistica dell’uomo del III millennio.
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Jake e Dinos Chapman
Jake e Dinos Chapman
Cyber-iconic man, 1996
fiberglass, metallic paint, electric pump, variable dim.
Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo per l’Arte
L’approccio al corpo di Jake e Dinos Chapman è del tutto anomalo: con le ragazzine gemellate punta all’errore di natura, al mostro, e all’ossessione sessuale con le loro facce fornite di membro virile. Ma poi c’è il sangue, le torture, l’orrore, che raggiunge il culmine in Hell, l’opera maniacale esposta ad “Apocalypse” del 2000, punto focale di una mostra non più in grado di eguagliare la fortuna di Sensation. La vocazione all’orrore, con perfette simulazioni di efferata crudeltà, come quella di “Cyber Ironic Man”, che ripete un martirio cinese in cui riecheggiano le atrocità dei “Disastri della guerra di Goya, è un marchio indelebile dei terribili fratelli, che ha fatto dichiarare al critico Wigram (cocuratore assieme a Rosenthal di Apocalypse) “Ormai lo shock fa parte dei materiali artistici. E ne fa parte perché il suo stesso concetto è diventato un materiale”. (Flash Art, dic 2000, genn. 2001, n. 225). Ma i fratelli Chapman – che non fanno che trasferire sul piano simbolico dell’arte ciò che accade quotidianamente in varie parti del mondo – si prendono gioco di tutta questa seriosità, dal momento che nei loro lavori abbonda il grottesco, (l’eccesso di tragedia sfocia in comicità) e un’irresistibile ironia.
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Antonella Bersani
Antonella Bersani
Casa stregata o paese dei balocchi, 2000
Installation, cm 230x340x340 (detail)
Antonella Bersani fissa la sua attenzione su di un solo apparato anatomico, anche se le sue sembianze possono essere allusive di altre parti corporee; lucide, rosee, carnose, a protuberanze con una fonda cavità nel centro, che l’autrice definisce “corpi”, sono vulve. Le sparpaglia dovunque, dentro scatole preziose, tra i cuscini, sul tavolo tra i fiori, nel carretto siciliano. Cloni di una realtà ineludibile che circola dovunque, pensiero dominante, ironia di un’ipersessualità iperesibita e perciò declassata. Commento dunque divertito di un comportamento sociale che diviene paradosso.
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Francesco Scialò
Francesco Scialò
Questo è il tuo sacrificio, 2000
mixed media, cm 150×200
Courtesy B&D Studio
Attento alle problematiche e agli eventi devastanti che lacerano il mondo e l’umanità, Franco Scialò li traduce in personali riflessioni/opere che stanno tra la scultura e l’installazione. E’ una risposta alla sequela di spaventosi omicidi, stupri, pedofilia, distruzioni che la TV ci regala quotidianamente. Ma si dedica anche a tematiche più leggere, per lo più trapassate dall’ironia. La sua caratteristica inconfondibile (che nelle ultime opere è venuta meno, sostituita da altre modalità strutturali, affidate a materiali di recupero soprattutto stoffe) è l’illuminazione che queste opere subiscono, come alberi di Natale, trasformandosi da tragedia truculenta in spettacolo. Ma non solo, l’illuminazione prodotta da innumerevoli minuscole lampadine sparse su tutta l’opera, infonde un’atmosfera di calore, un soffio catartico e sublimante, con la complicità anche di un ludico sorriso. Superano la realtà del male ed aleggiano verso una realtà di sogno. Succede anche a “Questo è il tuo sacrificio” per cui l’atto assassino dell’uomo incappucciato (un rituale satanico?) cede in violenza sotto l’effetto dell’illuminazione radiante.
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Ennio Bertrand
Ennio Bertrand
Under Attack, 2001
interactiv video installation, cm 106x61x30
Courtesy B&D Studio
Bertrand “Under Attack” si identifica con lo shock più incredibile che abbia mai colpito l’umanità del nostro tempo: l’attacco alle torri gemelle. Ennio Bertrand da tempo usa i media tecnologici più avanzati con cui filtra le sue conoscenze e le sue emozioni. Under Attack infatti è la prima applicazione di un’innovazione interattiva che l’artista ha messo a punto. La tecnica che permette di interagire con le immagini video l’ha chiamata Remote Stills e stabilisce – tramite un computer ed un dispositivo ad ultrasuoni che rileva la posizione dello spettatore, collegati ad un software – un diretto e stretto legame con il pubblico. Lo spettatore infatti, a differenza di altri interventi interattivi in cui è lui a d effettuare le modificazioni, qui ne è come risucchiato e subisce le immagini del video che involontariamente si trova a condurre. Cioè gli spostamenti dell’osservatore nello spazio, determinano dei cambiamenti nella successione del racconto visivo. Avanzando, indietreggiando o fermandosi, il video ci segue e ci fa rivivere dall’interno e da protagonisti la tragedia di New York trasmessa dalla CNN sotto il titolo indimenticabile di “America under attack”.
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Fritz Kok
Fritz Kok
Mermaid in coma, 2001
printed photos on Sommerset satin fine structured Aquarel-paper, cm 118×85
Courtesy Il Ponte Contemporanea
I nuovi artisti non cercano solo l’espressività violenta; ci sono modi più soft per stupire. Sono quelli che usa il fotografo Fritz Kok e rappresenta l’attualità di un filone di arte fotografica tipicamente olandese iniziata con le proposizioni inquietanti delle bambine forzate ad essere adulte, di Inez Van Lamsveerde. Quello di Kok è un mondo surreale fatto di algida fiction che ci trasporta nel sogno però con la concretezza tangibile di apparizioni ben collocate in ambienti reali, simili a laboratori di ricerca scientifica. tra vasche e piscine. Infatti il personaggio chiave è una sirena, un ibrido seducente, sofisticato ed asettico che sembra il frutto di laboriose ricerche dell’ingegneria genetica, ispirato dal glamour di una fashion/cover (Kok lavora nel mondo della moda). Sembra un alieno piovuto d’altri pianeti, dai connotati tuttavia iperrealistici, sottoposto a continui controlli medici per verificare le sue incerte capacità di sopravvivenza.
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Genia Chef
Genia Chef
Islands of Death (Danses de la Mort), 2002
four objects, basement and four 3D-boxes, cm 25×50 each
Courtesy Il Planetario
Attraverso assemblaggi fotografici, elaborati al computer, l’artista riflette sulla perdita di un mondo di bellezza creato dall’antichità classica, rievocato in fantasiose ambientazioni crepuscolari e decadenti. In esso si associa anche la reale presenza umana riassorbita nella suggestione della ricostruzione ambientale. Per questa mostra Genia Chef ha realizzato un’opera ispirata alla famosa “Isola dei morti “ di Arnold Boecklin, realizzata cent’anni fa. Se in Boecklin si celebra il declino dell’estetica greco-romana, Genia Chef lo traspone in tempo moderni e contemporanei, accostandolo a realtà storiche come quella di Lenin, Hitler, al Metropolitan Museum di New York, alla Vecchia Galleria Nazionale di Berlino. L’intento è quello di individuare il filo rosso di costanti achetipici dell’umanità, nella ricognizione storico-estetica, che insistono su violenza, distruzione e morte. Lo shock di fondo in questo caso si stempera nella visione simbolica attraverso il filtro estetico-concettuale.
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Dean Verzel
Dean Verzel
La Santa Croce n. II, 2002
digital print on photo paper, cm 165×130
Nei progetti di grandi installazioni di Dean Verzel circola l’idea di morte, ma allacciata alla vita e alla conoscenza, come ne “Il trionfo della morte, dal libro all’esperienza cosmica” del ’97. In quel caso l’accumulo dei libri impenetrabili, ciascuno sigillato dalla vite stellare, racchiudeva un sapere nascosto, dischiuso solo sul libro con “Il trionfo della morte” di P. Breughel. Il simbolo della croce, segnale remoto che si perde nella notte dei tempi, al i là del riferimento cristiano, è ora l’oggetto di più intensa ricerca da parte dell’artista. Un simbolo che confina con la realtà più tangibile, come quella del progetto della grande croce di perspex piena d’acqua in cui l’artista si immergerà per rinnovare un sacrificio che combacia con la prova di resistenza, nella migliore tradizione di body-art, per un’ amplificata esplorazione delle potenzialità umane, fisiche e psicologiche. La simbologia della croce è sfociata nella recente performance dell’incendio di una croce seicentesca, condotta assieme a Bertok, a Strunjan in Slovenia. Accanto alla provocazione che si colora di dissenso nei confronti di oscuri poteri che governano gli uomini al di là dei loro voleri, la croce che brucia è prova, secondo il discorso pronunciato dal filosofo Mlakar, in presenza dell’evento, della verità di Dio, che risorge dalla rovina della croce, bruciata perché strumento del male estremo su cui è morto il Cristo.
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Orlan
Orlan
Madonna Bianca n.10 studio particolareggiato sul drappeggio e il barocco
colour photo, cibachrome, edition of 8, cm 120×160
Courtesy Lattuada Studio
E’ la dimostrazione vivente della fusione di organico e tecnologico sull’immagine del proprio corpo, per la postumanità del futuro. Nella convergenza di artificiale e naturale, sperimentata chirurgicamente sulla propria carne, Orlan modella la nuova identità dell’ uomo che si trasforma in virtù del processo tecnoscientifico. L’arte di Orlan tende al rovesciamento di un ordine prestabilito. Dopo una serie di performances già orientate sul concetto di trasformazione ed estensoione del corpo, nel ’90 inizia le performances chirurgiche per andare oltre il limite di natura. Le metamorfosi avvengono secondo un progetto ch prende in considerazione le più famose icone femminili della storia dell’arte; esse si trasferiscono su Orlan tramite il computer. Le operazoioni chirurgiche vengono documentate da video. Il 7° intervento è stato diffuso via satellite dalla galleria Sandra Gerin di New York in 14 luoghi diversi tra loro collegati da una trasmissione interattiva. Alcuni estratti del suo corpo diventano reliquie e vengono esposti nelle gallerie del mondo.
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Bachrach & Kristofic
Bachrach & Kristofic
Untitled n. 3, 7, 11, 1999
photography printed on transparent media, cm 200×110
Le gigantografie di corpi intrecciati nell’atto d’amore, di questa coppia di artisti croati, divengono misteriosi attraverso l’elaborazione al computer e ai tagli frammentati da loro operati. Il massimo di fisicità svanisce nella virtualità dello sguardo digitale dello scanner, che, unico testimone nascosto, non turba l’intimità dell’approccio. L’intento è quello, anche nelle dimensioni, di equipararsi al consueto immaginario pubblicitario mostrando però la vita, che provoca inquietudine se non dissenso, al contrario della consueta pubblicità a fini consumistici che se pur dotata di banale provocazione – ad esempio per la biancheria intima o costumi da bagno… – viene accettata dall’occhio abitudinario del passante con disattenta disinvoltura.
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