IMAGERIE ART FASHION – NATURA NATURANS 8
CURATORE / CURATOR
Maria Campitelli
Civico Museo Revoltella
Musei del Canal Grande
Il Planetario
Juliet
LipanjePuntin
Studio Tommaseo
Teatro Miela
General Consulate of Croatia
Istituto Statale d’Arte E.U. Nordio
Camera di Commercio, Industria, Agricoltura e Artigianato
Consulate of Serbia-Montenegro
TRIESTE 27 GIUGNO – 31 LUGLIO 2003 / JUNE 27 – JULY 31, 2003
PROMOZIONE ED ORGANIZZAZIONE / PROMOTION AND ORGANISATION
Gruppo 78 International Contemporary Art
CON LA COLLABORAZIONE DEL / WITH THE COLLABORATION OF
Comune di Trieste
Museo Rivoltella
SEGRETERIA / SECRETARY OFFICE
Fabiola Faidiga
CONTATTI INTERNAZIONALI / INTERNATIONAL CONTACTS
Gruppo 78
IN PARTICOLARE REFERENTE PER LA SERBIA / PARTICULAR REFERENT TO SERBIA
Nataæa Ljubojev
PER POLA (CROAZIA) / TO PULA (CROATIA),
Manuela Cerebuch
COORDINAMENTO ISTITUTO STATALE D’ARTE E. U. NORDIO, TRIESTE
Manuela Cerebuch
UFFICIO STAMPA / PRESS OFFICE
Barbara Stefani / Comunicarte
Samantha Punis
ALLESTIMENTI / DISPLAYS
Elena Carlini, Piero Valle
ASSICURAZIONI / INSURANCES
Assicurazioni GENERALI S. p. A.
CATALOGO A CURA DI / CATALOGUE BY
Maria Campitelli
TESTI / TEXTS
Getulio Alviani
Maria Campitelli
GianLuca Marziani
Luciano Panella
IMMAGINE E PROGETTO GRAFICO / LAYOUT
Massimiliano Schiozzi / Comunicarte
LOGO IMAGERIE ART FASHION
Matteo Bartoli / Comunicarte
TRADUZIONI / TRANSLATIONS
Erik Schneider
FOTOGRAFIE / PHOTOS
Ada Ardessi
Davide Bolzonella
Ela Bialkowska
Ian Hobbs
Jakub Klimo
La Bottega dei fotografi, Novi Ligure
Markli
Massimiliano Mazzotta
Gabriella Melfa
Mare Milin
Alberto Moretti
Eva Rudling
Mario Sillani
Vanja Æoljin
Ettore Sottsass jr.
Marino Sterle
Sandra Vitaljic´
COPERTINA / COVER
Germana Marucelli’s models, textile designed
by Getulio Alviani, photo by Ettore Sottsass jr
EDIZIONE / PUBLISHER
Juliet editrice
STAMPA / PRINTING
Graphart, Trieste
L’ORGANIZZAZIONE DESIDERA RINGRAZIARE PER LA LORO GENTILE
COLLABORAZIONE / THE ORGANIZATION WISH TO THANK FOR THEIR KIND COOPERATION
B & D Studio Contemporanea, Milano; Biagiotti Arte Contemporanea, Firenze; Camera di Commercio, Industria,
Artigianato e Agricoltura, Trieste; C. P. Company, Milano; Consolato Generale della Croazia, Trieste; Consolato Generale della Serbia e Montenegro, Trieste; Consolato Onorario della Slovacchia, Trieste; Istituto Statale d’Arte E. U. Nordio, Trieste; IT’S TWO, Trieste; La Giarina, Verona; Spazio Juliet, Trieste; LipanjePuntin, Trieste; Marella Arte Contemporanea, Milano; Teatro Miela, Trieste; Museo
Revoltella e Musei del Canal Grande, Trieste; Il Planetario, Trieste; Caterina Tognon, Bergamo / Venezia; Studio Tommaseo, Trieste.
E INOLTRE / MOREOVER
Patrizia Andolfatto, Valentina Camporeale, Denis Curti, Gari Cappelli, Miriam Del Bianco, Mario Drabeni, Teodoro Giudice, Lorenzo Michelli, Angelo Mammetti, Maria Masau Dan, Matko Matanic´, Igor Meluzin, Mascia Nadal, Branka Orlic´, Barbara Remiasova, Rosella Pisciotta, Luciano Panella, Neda Piloti, Samantha Punis, Franca Riccardi, Sabina Rivetti, Goran Stojkovic´, Simona Tartarelli, Miljan Todoroviå, Vjekoslav Tomaæic´, Amanda Vertovese, Tonåi Vladislavic´, Metka Vrhunc; Wu Zheng, Claudia Ziliotto and the dancers of Teatro G. Verdi, Trieste for the performance “Viaggio a Ixtlan”.
LA MOSTRA È STATA REALIZZATA CON LA COLLABORAZIONE DI / THE EXHIBITION IS REALIZED WITH THE COLLABORATION OF:
Comune di Trieste – Assessorato alla Cultura
Museo Revoltella
CON IL PATROCINIO DELLA / WITH THE PATRONAGE OF:
Provincia di Trieste
LA MOSTRA È STATA REALIZZATA CON IL CONTRIBUTO DI / THE EXHIBITION IS REALIZED WITH CONTRIBUTIONS BY:
Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia
Provincia di Trieste
Fondazione CRTrieste
- I. A. T. Trieste
C. C. I. A. A. di Trieste
Assicurazioni Generali S. p. A.
Imagerie art fashion: raccontare una mostra (di Maria Campitelli)
Imagerie art fashion: raccontare una mostra
Maria Campitelli
Imagerie: ovvero l’esplosione di un’immaginazione che si fa figura, della fantasia che lambisce il corpo e s’aggira tra la pelle e la crisalide che l’avvolge, che esplora e depreda il territorio dell’arte risucchiandolo in quello della moda, che sconvolge ed infrange il concetto di confine, che elegge la “contaminazione” a propria bandiera, che invade spudoratamente i media, arricchendosi di tutto ciò che trova. Imagerie: miscuglio d’arte, tecnologia, linguaggi analogici e digitali, immaginario meccanico, artigianalità consumata tra “tailoring” e “dressmaking”, invenzione spericolata di iperboli visive, che dilatano e corroborano la fragilità mutevole della moda, regina della modernità già riconosciuta da Baudelaire; serrati percorsi tecno/scientifici, quale suo ineludibile back-ground. Tutto ciò attorno e per “il corpo senziente come prima opera d’arte” secondo l’affermazione di Merleau-Ponty in “Fenomenologia della percezione”.
Imagerie: come luogo dell’incontro, di un andirivieni incessante tra le libertà dell’arte e le necessità della moda, nelle sue infinite varianti dalla high fashion al diligente lavoro di sartoria, dove il corpo, ricettacolo di percezioni e sensazioni, è il perno fondante. Plasticamente tridimensionale, su di esso si modella e configura la bidimensionalità dei tessuti/non tessuti, pronti tuttavia a tramutarsi in gonfi volumi, e la bidimensionalità dell’immaginario fotografico, che da esso trae alimento e fantasia illimitata. Con la proiezione in situazioni futuribili, di corpi clonati, di robot glaciali, nostalgici dell’umanità perduta.
Un mondo fantasmagorico dunque e poliedrico, teso tra immaterialità virtuale e concretezza della tecnica, che abbraccia il sogno e insieme la fatica dell’umile ma prezioso lavoro sartoriale.
Un mondo che di prepotenza s’inoltra nell’artificio, a partire dai materiali non tessuti, poliesteri, polimeri, polivinile, tutti derivati dal petrolio, fibre sintetiche che rimpiazzano quelle naturali, in egual misura sia nel mondo della moda che in quello dell’arte.
Dall’arte cinetica e programmata, trasferita da Getulio Alviani sui tessuti per Germana Marucelli, e divenuta indossabile, alle alchimie shibori di Patricia Black, che dalla tecnica risale a creazioni libere e fantasiose. I suoi abiti si gonfiano nell’aria diventando costume teatrale. L’arte che passa alla moda e la moda che risale all’arte.
Tessuti che abdicano alla plastica, e abiti/sculture di vetro che s’incrociano con i raggi catodici del video. Tecniche e materiali industriali, come ad esempio il quasi impraticabile “techno-gel”, che fanno capolino in un abito d’artista (quello di Lucia Flego) come prova sperimentale della manovrabilità di un prodotto, piegato ad usi impropri, come spesso accade nei percorsi dell’arte. Cadono quindi le barriere non solo tra arte e moda, ma tra arte e industria. E l’immaginario fotografico è l’alimento di Imagerie, l’irrinunciabile sostegno di fashion, con le sue potenzialità illimitate, dove il mito della storia s’intreccia con lo starsystem, in visioni di violento impatto visivo, come quelle di David LaChapelle, o dove il potere digitale inventa la bellezza assoluta, ma virtuale, delle “Artificial Beauty” di Micha Klein.
Molto spesso è campagna pubblicitaria per una Maison. C. P. Company con C Pictures l’ha sostituita con una mostra. Quattro fotografi internazionali, Gianni Berengo Gardin, Martin Parr, Gueorgui Phinkassov, Sandro Sodano, che esplorano il nuovo show-room dell’azienda, consolidata dagli anni’70, nel perseguire un’idea diversa del casual, ciascuno da una sua angolazione, rivoltandolo da dentro a fuori, e collegandolo ad una concettuosa perlustrazione del quotidiano.
Tutto questo confluisce in Imagerie e ancora la ricerca scolastica di alcuni istituti a livello medio superiore ed universitario di Tecnologia tessile e Fashion Design, di alcuni paesi dell’Est, Slovenia, Croazia, Slovacchia e Serbia. Stabilendo implicitamente un raffronto tra Est ed Ovest. Tutto questo è Imagerie che si configura in tre settori distribuiti nelle innumerevoli locations cittadine: l’episodio di Getulio Alviani, il primo esempio, all’interno di questa rassegna, dello scambio proficuo tra arte e moda; il settore centrale della mostra, nella congerie multiforme e polisemica di artisti, stilisti, fotografi, ivi compresi i performer; il settore specifico delle scuole, con le loro svariate e rigorose sperimentazioni, nell’aggiornamento dei materiali e delle fogge che rifuggono sempre più dal tradizionale concetto di abito – inteso come copertura, rivestimento – per abbracciarne invece di nuovi, più liberi ed essenziali, precocemente prefigurati da Alviani.
E curiosamente, in questo complesso percorso, caratterizzato da mille rivoli diversi, il cerchio si chiude. La stilista serba Vesna Stojkovic´, nella collezione “estate” presenta un abito a righine diagonali biano/nero. La Facoltà di Tecnologia del Tessile di Zagabria, guidata dal grande magistero di Tonåi Vladislavic´, presenta l’ultima collezione dal titolo “The Eye of Geometry”, allacciandosi, con i dovuti aggiornamenti da terzo millennio, alla “Nuova Tendenza” colà importata da Getulio Alviani negli anni ’60.
Principio e fine che si toccano, in un continuum che trova nei fondamenti geometrico-scientifici degli irriducibili assi portanti – nonostante l’apparenza caotica, il marketing, l’advertising, il neo-barocco, l’eccesso insomma che connota l’attualità, e pure questo settore culturale e mondano insieme dell’art-fashion.
IMAGERIE ha un background. Nel 2001 c’è stato “Garden Fashion”, mostra internazionale promossa dal Gruppo 78 I.C.A. nell’irripetibile scenario della serra ristrutturata di Villa Revoltella, a Trieste. Uno scrigno trasparente ospitava, come in una vetrina ininterrottamente aperta allo sguardo, 9 artisti che dell’abito avevano fatto un pregnante pretesto d’indagine, sconfinando dal suo uso abituale per divenire, come nel caso di Mimi Farina con “Drowing dress”, organismo vivente in crescita, al punto che lo strascico debordava dalla Serra per inoltrarsi nel giardino e farsi prato. E cosi, tra gli altri, l’abito di fragile silicone di Fabrice Langlade, era pretesto per sciorinare una scrittura trasparente leggibile nell’ombra proiettata sulla parete, e Susy Gomez proponeva un “vestido”/corazza, un abito di duro metallo, caricandosi di allusivi significati di difesa, e allargandosi di conseguenza al concetto più generale della condizione della donna nella nostra società. Cioè erano presenze che partendo dall’abito, un oggetto di antico spessore antropologico, approdavano ad altre considerazioni, pur mantenendo l’alone glamour proprio dell’universo della moda.
E nel 2002 c’è stato “Other Fashion”, sempre per la promozione del Gruppo 78 I. C. A. , come evento trasversale di Mittelmoda a Gorizia, in occasione del suo decennale. E l’”altra moda” era ancora quella degli artisti, degli artefici di mondi all’apparenza similari ai progetti fashion, ma realizzati con altri intenti o con altri mezzi, come le centinaia di bottiglie di plastica, dai colori sgargianti, per gli abiti di Enrica Borghi. Con il corollario di grandi fotografi internazionali, come Anton Corbijn, Micha Klein, Fritz Kok, Roy Stuart, non strettamente aderenti all’immaginario pubblicitario delle riviste specializzate, ma liberi creatori di seducenti racconti visivi, in qualche modo adiacenti o evocativi del gran mondo della moda.
Imagerie si rafforza su queste basi, ampliandole. L’indagine è ancor quella dell’identità, del minimo scarto, tra le due aree, dove lo scarto è da leggere nella funzionalità di Moda rispetto ad Arte. L’intreccio di questi mondi è quindi quasi inestricabile, ivi compreso quello della fotografia, dove pure spesso appare arduo stabilire a che punto cessi il reportage per innalzarsi al rango di arte, o dove addirittura d’arte soltanto si tratta, dato anche il larghissimo uso, negli ultimi anni, dell’immagine fotografica da parte degli artisti che ha contribuito a confondere le cose. Ne consegue la caduta dei tradizionali border-line tra i rispettivi territori, tra i linguaggi e le tecniche, tra invenzione artistica e pratico utilizzo. Certo estendendo il discorso a grandi eventi del recente passato, va ricordato innanzi tutto il tentativo di legalizzare lo sfondamento dei rispettivi ambiti di Arte e Moda con la Biennale della Moda di Firenze, del 1996, dove l’artista era equiparato allo stilista, proponendo insieme, in coppia, delle installazioni. E l’anno precedente, l’apparizione alla Biennale veneziana di Roberto Cappucci, con ben 12 sculture, dove la semplice definizione di abito poteva risultare stretta, nonostante le immagini nel loro profilo riconducessero ad esso. Il che equivaleva a riconoscere la valenza artistica di certa alta moda. Senza sfuggire tuttavia ad una certa ambiguità di fondo, come ha sottolineato anche Sabrina Zannier nel testo redatto per “Garden Fashion”. Dunque la storia testimonia questo costante anelito da parte di Moda di risalire ad Arte, e di confondersi con essa. Ed Arte, da parte sua, ricambia l’inclinazione, non solo per cortesia, con un replay per Moda, motivato da svariate istanze. Tra esse, l’apertura verso spazi prestigiosi, governati da Moda (le famose fondazioni, da Prada a Fendi, da Pitti Immagine Discovery a Ratti) sponsorizzazioni di eventi espositivi, ospitalità in maison con nuove possibilità di mercato.
Inoltre spesso importanti iniziative culturali chiamano direttamente in causa la moda. Ricordo solo, tra le più recenti, “Il quarto sesso” a cura di Francesco Bonami e Raf Simons, che ospitava in quasi egual misura artisti e stilisti, sia perché la moda trova terreno fertile tra i teenagers come sollecitazione e come consumo, sia perché organizzata da Pitti Immagine Discovery.
E poi c’è la realtà di nuove istituzioni museali che sorgono soprattutto nel nord Europa in cui ormai è d’obbligo la sezione dedicata alla moda come ci può essere quella per la grafica o la fotografia. In Belgio, oggi uno dei paesi più fertili ed avveniristici, in fatto di cultura e proposte fashion, ad Anversa è sorto addirittura, nel settembre 2002, un tempio della moda, il MOMU, un museo interamente ad essa dedicato che raccoglie vivide testimonianze dal XVI secolo in poi fino ai giorni nostri. Comprende anche uno spazio particolare per gli stilisti belgi contemporanei, come Dries Van Noten, Dirk Van Saene che hanno portato la moda belga alla ribalta internazionale, e i più giovani, A. F. Vander Vorst, Wim Neels, gettonatissimi in tutti i meeting più importanti.
Imagerie art fashion: Getulio Alviani & Germana Marucelli (di Maria Campitelli)
Imagerie art fashion: Getulio Alviani & Germana Marucelli
Maria Campitelli
IMAGERIE Art Fashion parte da un nucleo storico. La mostra inizia al Museo Revoltella con un connubio tra l’artista Getulio Alviani e la stilista Germana Marucelli. Getulio Alviani è il ben noto ideatore plastico che negli anni ’60 contribuì largamente all’affermazione e alla diffusione nel mondo dell’arte cinetica e programmata. A differenza di altri artisti che all’epoca si unirono in gruppi, per un lavoro d’equipe, come il gruppo T a Milano, il gruppo N a Padova, Getulio Alviani operò da solo, ponendo alla base della sua ricerca un fondamento tecnico e scientifico che scavalcava e accantonava le modalità operative e gli obiettivi dell’informel, la tendenza predominante del decennio precedente.
I prodromi di un tale atteggiamento artistico sono da ricercare nel costruttivismo storico, nel Bauhaus, nell’arte concreta sostenuta anche dal nostro Gillo Dorfles. Una costruttività di fondo, un’intensificazione ed un ampliamento delle potenzialità percettive visuali – impiegando la luce come gradiente determinante delle sue “superfici a testura vibratile” – l’intuizione di un manufatto che vive del movimento e si modifica e completa con il diretto intervento dell’osservatore, questi sono alcuni dei punti chiave del suo lavoro, dove la geometria, la pulizia formale, l’essenzialità dell’opera appaiono pure delle costanti. Una volontà di mettere ordine nella confusione delle cose del mondo, abbattendo le barriere tra arte e tecnica. Un predominio dunque della ragione che argina e contiene gli impulsi dei sentimenti. Il contrario dell’orgia viscerale, dell’istintualità gestuale perseguita dall’informale.
Una volontà di attenersi alla realtà in senso fenomenologico (erano i tempi delle teorie di Husserl) per cui “uno smalto nero colpito dalla luce diviene un punto bianco” (come afferma Getulio Alviani in un suo testo in francese datato tra il 1964 e il 1970, per la personale alla galerie Denise René di Parigi). Da qui l’avvio di una ricerca dell’aspetto fenomenologico, della realtà in sé, ed ecco i metalli, l’acciaio, l’alluminio, le prime linee-luce, le vibrazioni luminose variabili a seconda dell’angolazione visiva dello spettatore.
La vibratilità dell’oggetto + il comportamento del fruitore daranno luogo a una “situazione”. Tutto ciò riflette l’esigenza di cambiare il concetto e le modalità dell’arte fino a quel momento perseguita, di creare “situazioni” con il concorso del pubblico, una “nuova tendenza” dunque, fondata sul movimento, sulla mobilità, e quindi sulla trasformabilità di ciò che percepiamo. E la necessità di programmare le combinazioni visive. La programmazione (arte programmata è una definizione coniata da Umberto Eco in occasione della mostra nel negozio Olivetti di Milano, nel 1962) parte da moduli elementari in b/n che moltiplicandosi, sovrapponendosi, incrociandosi, alternandosi nell’impiego del bianco e del nero, producono sempre nuove soluzioni.
Nel 1963 occasionalmente si trova a collaborare con Germana Marucelli, per la quale progetta dei tessuti in cui riversa la sua esperienza “programmata”. La Marucelli li convoglia in fluide gonne di seta plissettate, lui in asettici tubini. Gli effetti ottici, nel movimento, variano all’infinito, ed è subito trend. È nata la moda “op”, come tutti i giornali dell’epoca l’hanno chiamata, non senza qualche riserva da parte della critica per una certa banalizzazione del fenomeno che partiva in realtà da premesse storicamente radicate e da una ricerca ben precisa, adiacente alla scienza.
Di fatto l’avvicinamento di arte e moda, ricalcava un percorso già avvenuto nella storia dell’arte, quanto meno dagli abiti disegnati da Balla nel 1914, dai gilet di Depero degli anni ’20, dalla ricerca, nello stesso periodo, dei rapporti geometrico/cromatici di Sonia Delaunay per i tessuti dei suoi abiti dal nuovo impatto visivo.
Un gioco diffuso sui giornali degli anni ’60, e questo sì un po’ modaiolo, fu invece il bisticcio tra “op” e “pop”, l’altro versante estetico, scaturito quasi in concomitanza dall’ East Coast, al punto che nacquero anche delle mostre modellate su questo incrocio. Valga per tutte quella triestina, intitolata “op on the pop”, allestita alla libreria Feltrinelli nel ’67.
L’atelier Marucelli fu in realtà a Milano un punto d’incontro della cultura dell’epoca; vi confluivano artisti, critici, poeti, intellettuali. Il nuovo spazio, inauguratosi proprio per la presentazione di questi modelli, era stato ideato da Paolo Scheggi, altro personaggio-chiave del momento, allineato sulla lunghezza d’onda di Alviani, che non dimentichiamolo ha una formazione di architetto, quanto su quelle di Agostino Bonalumi, ed Enrico Castellani. Egli aveva ideato una struttura particolare, modificabile che permetteva di trasformare in un batter d’occhio lo spazio da laboratorio in passerelle e pedane per sfilate.
L’interesse di Alviani si allargò, nel tempo, anche ad altri oggetti portabili e da indossare, come gioielli, orologi investendoli però sempre del suo geometrico minimalismo formale o della sua ironia, come l’orologio senza tempo, privo dell’indicazione delle ore, o come il paradossale orecchino d’alluminio, dalle dimensioni esorbitanti. Di questo straordinario incontro tra arte e moda, tra cultura e mondanità, la mostra propone il celeberrimo abito “positivo/negativo” – una scala in espansione o in compressione di righe orizzontali bianche e nere – di pesante cotone, tra l’altro eternato da Ettore Sottsass jr. in una suggestiva immagine dentro a una serra dove l’andamento lineare della copertura riprende e dilata quello del tessuto. E poi l’arioso abito di chiffon di seta con gonna plissettata a raggio di sole che indossato, nel movimento, si trasforma di continuo, divenendo opera d’arte vivente, fonte inesauribile di variazioni ottico/percettive, come l’ha ancora documentato Sottsass, allora nel ruolo di fotografo, in alcune splendide e divulgatissime immagini o Ada Ardessi. Responsabile di tale fantasmagoria visiva è la matrice modulare del disegno. Dell’Ardessi la mostra offre una straordinaria quanto inedita sequenza fotografica di una sfilata, svoltasi nel 1964 nel mitico spazio Marucelli. E poi ancora il sobrio “avvolgente” adorno del gran disco di alluminio, chiamato “cerchio + quadrato” (che sarà anche il titolo con l’aggiunta di “= volume”, di una sua opera tridimensionle del ’67, però di natura completamente diversa).
In sostanza la ricerca ottico-cinetica di Alviani si trasporta inalterata sull’abito, e all’inizio, afferma l’artista stesso, non è tanto la moda in sé che lo intriga, quanto la potenzialità dinamica che essa contiene attraverso il movimento del corpo.
E di seguito Alviani matura un’idea tutta sua della moda, passando attraverso “Bat(h)tape” (1966), il costume da bagno ridotto a due strisce (studiato con una grande industria), di speciale nastro adesivo per permettere il passaggio dei raggi solari, disposte a V dalle spalle all’inguine, con la complicità dell’americano Rudi Gernreich, successivo geniale collaboratore di idee fashion. La geometria cinetica ridotta all’estremo. E la porta aperta al nude look, secondo un’avveniristica intuizione. Non già con intenti anticonformisti, che di anticonformismo non si può certo parlare nella generale, e banale omologazione del nudo mass-mediatico, ma perché Alviani ritiene che l’abito debba mutuarsi alla pelle, sostituito da qualche sostanza da plasmarvi sopra, o da ingerire, per mantenere inalterata la sua temperatura rispetto alle variazioni climatiche esterne (dato che la funzione fondamentale del vestito è proprio di preservare il corpo dalle oscillazioni termiche). Perché il corpo, specie nello splendore giovanile, è una macchina estetica autoreferente, come dimostrano alcune sue foto tra gli anni ’70 e ’80 – “operazione 0”, “in(m)posizione” – che riprendono il pube femminile rasato e parte delle coscie, plasmate da un’assolutezza formale paragonabile alle forme di Arp o Brancusi. L’idea è sempre quella di dichiarare ciò che è, senza falsi pudori, o rimandi metaforici, direi quasi in senso fenomenologico. E continua con l’immagine emblematica di “open”, “modella vestita a viso aperto, a tutto aperto” (degli inizi degli anni ’90), sfida e disposizione, come è per Getulio Alviani il senso della donna. Qui la pulizia formale diviene in qualche modo astratta rarefazione classica, nonostante la realistica leggibilità dell’intero corpo che, nel succinto abito nero, scopre il sesso. Questa sì un’immagine anticonformista! Esente dal voyeurismo che di norma investe il corpo femminile, “open” non allude a qualcosa che ipocritamente si vuol far intuire, ma lo rivela direttamente con distacco e squisita eleganza plastica. La moda è allora risucchiata dalla bellezza, s’insinua nella pelle, vive con essa e s’identifica nella naturale armonia del corpo, al di sopra e al di fuori di qualsiasi sovrastruttura.
L’arte entra in boutique: Germana Marucelli e Getulio Alviani (di Luciano Panella)
L’arte entra in boutique: Germana Marucelli e Getulio Alviani
Luciano Panella
Germana Marucelli nasce a Firenze nel 1905, cresce in un ambiente di raffinato artigianato e comincia giovanissima a lavorare con la madre e la zia, titolari di sartorie di alto livello.
Negli anni ’20 e ’30 i sarti parigini come Chanel, Alix, Schiaparelli, Vionnet, dettano le regole del gusto e delle mode; le sartorie italiane si ispirano alle loro creazioni, comperandole o copiandole.
Dotata di grande senso dell’osservazione e di grande memoria visiva, Marucelli è abilissima nel riprodurre i modelli francesi che vede alle sfilate parigine, talmente abile da riuscire a riprodurre un modello alla perfezione anche solo avendolo visto indossato.
L’autarchia, imposta dal fascismo, interrompe questo rapporto di dipendenza con la Francia: il governo cerca in tutti i modi non solo di incentivare l’utilizzo di tessuti e prodotti nazionali ma impone alle sartorie italiane di non ispirarsi più a modelli stranieri.
Marucelli, donna di carattere forte e indipendente, inizialmente si ribella a queste imposizioni e continua ad andare a Parigi per assistere alle sfilate fino ai primi anni ’40; la guerra però la costringe a interrompere il lavoro che, dopo varie difficoltà, tenta di proseguire a Stresa, dove sono sfollate moltei signore benestanti.
Per la prima volta Germana Marucelli è costretta a diventare anche stilista e come ricorda Fernanda Pivano “Germana si trovò di fronte a questo problema senza più gli esempi di Parigi per risolverlo. Quello che nessuno aveva ottenuto da lei con la coercizione nacque da sé”. (1)
La decana dei giornalisti di moda Maria Pezzi ricorda bene quelle prime “collezioni”, fatte con quello che allora si riusciva a trovare: “Abiti bianchi dal bustino aderente che esaltavano il vitino da vespa. Una novità assoluta, anche rispetto ai francesi, tanto che le creazioni della sarta milanese anticiparono il new look di Dior.” (2)
Alla fine della guerra, con la progressiva normalizzazione della vita quotidiana, i rappresentanti di molte sartorie riprendono i viaggi a Parigi, come prima del conflitto e continuano per alcuni anni, nel dopoguerra, a ispirarsi alle creazioni dei nuovi grandi parigini come Fath, Balenciaga, Balmain, Dior, nella convinzione che un prodotto “italiano” suoni troppo provinciale e poco raffinato.
Marucelli non è l’unica sarta italiana che, costretta dalle circostanze, durante gli anni di guerra ha deciso di proporre proprie creazioni e ora non se la sente più di tornare indietro, ricominciando a riprodurre i modelli francesi. Una grande sartoria come la sua però, dà lavoro a molta gente e abbandonare l’ispirazione parigina potrebbe causarle la rovina economica. Non sono solo le clienti a opporsi, anche gli stessi fornitori, la stampa specializzata, alcuni colleghi, quasi tutti sono contrari all’idea che una sartoria italiana crei i propri modelli.
Marucelli è sempre più consapevole delle potenzialità immense dell’artigianato italiano, soprattutto nel campo della moda per tutti i giorni e, come sottolinea Maria Pezzi, “Sarà proprio la Marucelli, una donna volitiva che ospitava nel suo salotto Giuseppe Ungaretti, Alberto Savinio, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, l’unica assente alle sfilate parigine del 1947”. (3)
Il passaggio da sarta a sarta-stilista non è un percorso facile e, come sottolinea Fernanda Pivano, più che mai in questo periodo Marucelli cerca il conforto degli intellettuali e degli artisti di cui si è sempre circondata e a cui si sente affine, essendo lei stessa una “creatrice”.
La consacrazione di un vero e proprio stile italiano avviene con le sfilate fiorentine organizzate dal marchese Giorgini a Palazzo Pitti nei primi anni ’50. Per gli stilisti che partecipano con le proprie creazioni, come le sorelle Fontana, Simonetta, Alberto Fabiani, si tratta di un rischio ma anche di una notevole opportunità e di un incoraggiamento a proseguire nel proprio lavoro.
Sempre Pivano ricorda la prima sfilata Marucelli a Palazzo Pitti: “Così in quel luglio del ’51 (Marucelli) presentò a Firenze, in un silenzio agghiacciante, una collezione invernale interamente dedicata allo stile impero (…) La realizzò in broccato oro e velluto nero, in lana e velluto nero, in stoffe da tailleurs mélange blu e nero o rosso e nero, con le stoffe grosse che cominciavano allora e erano destinate a un così largo sviluppo. Le ragazze sfilavano sobrie e misteriose, con un’andatura tra l’ascetico e l’aristocratico. Germana aveva inventato il dolce stil novo moderno e di fronte a quelle donne che parevano trecentesche sculture pisane in legno il pubblico rimase sconcertato.” (4) Nel clima di rinascita economica e morale del dopoguerra Marucelli partecipa a diverse iniziative innovative per promuovere la produzione sartoriale “made in Italy”, come ad esempio le sfilate spettacolo di Palazzo Grassi organizzate dal Centro Internazionale delle Arti e del Costume di Venezia.
L’evento commerciale e mondano più famoso di quel periodo, sempre dovuto all’estro e all’intraprendenza del marchese Giorgini, è il “Transatlantico della Moda” del 1956. È una sfilata-crociera, in cui otto nobildonne italiane, ricche, giovani e belle, fanno da testimonial ad alcune tra le sartorie italiane più importanti, indossando durante la traversata sulla “Cristoforo Colombo”, diretta negli Stati Uniti, un abito adatto ad ogni momento della giornata. Marucelli è rappresentata da Kiki Brandolini d’Adda e Camilla Cederna seguirà l’intera traversata descrivendola nei famosi reportages per “L’Europeo”.
Germana Marucelli è ormai affermata a livello internazionale. Negli anni del benessere, ogni stagione vede il lancio di una linea nuova, spesso con nomi suggestivi: la linea “Crisalide”, la linea “Fraticello”, la linea “Pannocchia”; quest’ultima esce alla fine degli anni ’50, poco prima che anche Balenciaga proponga una collezione simile, la famosa linea “a sacco”, quasi raccogliendo l’ispirazione della stilista italiana.
Personaggi come Evita Peron, attrici come Silvana Mangano e Rosanna Schiaffino, cantanti come Milva, sono solo alcune delle clienti famose che, negli anni, indossano modelli Marucelli. La stilista sceglie però di non legare la propria creatività ad una figura celebre di riferimento, una scelta che resterà costante in tutta la sua vita professionale ed è conseguente alla decisione di privilegiare sempre l’aspetto creativo del proprio lavoro a discapito di quello più puramente commerciale o spettacolare.
Con il successo, Germana Marucelli è libera di approfondire l’idea base dell’abito come un’opera d’arte, come il risultato di un’elaborazione culturale, con un occhio alla portabilità e uno alla creatività. Una moda cerebrale si potrebbe dire, che la stilista vive da intellettuale, circondandosi di personaggi della cultura del tempo, ospitati nei suoi “salotti del giovedì”, e organizzando anche iniziative non legate alla moda, come il Premio letterario San Babila dedicato alla poesia.
Tra gli amici di Marucelli sono presenti molti artisti: Casorati, Gentilini, Savinio, Campigli che le dedica un ritratto nel 1950, raffigurandola di profilo, con la caratteristica pettinatura a crocchia. Marucelli è attratta dagli artisti che propongono contrasti forti e accostamenti di colore decisi e riflette spesso, nelle proposte delle sue collezioni, quello che è il cammino dell’arte contemporanea.
Alla fine degli anni ’40, poco prima che nel mondo esploda la moda dell’esotismo con personaggi come la cantante Yma Sumac, Marucelli propone una collezione ispirata all’arte peruviana, ideata con lo scenografo e artista Pietro Zuffi, con cui instaura una lunga collaborazione. In seguito Campigli disegna alcuni motivi per i capi della collezione primavera-estate 1951 e per tutti gli anni ’50 temi e atmosfere di un determinato artista sono quasi sempre presenti nelle collezioni Marucelli. Il collegamento artemoda può essere indiretto, come quando una collezione viene accostata ad un determinato artista per un servizio fotografico, vedi una collezione del 1957 chiamata “Omaggio a Picasso”. In altri casi, come ad esempio nelle collezioni ispirate al Beato Angelico o a Botticelli, l’omaggio di Marucelli è più un richiamo generale allo stile dell’artista che una riproposizione precisa di modelli.
Nel 1960 i celebri “vescovi” di Manzù ispirano la stilista a proporre una variazione della linea impero, mentre nel 1962 una sua collezione è dominata dalle geometrie bianche e nere di Capogrossi.
Un’altra importante collaborazione dei primi anni ’60 è quella con Paolo Scheggi, artista e architetto, scomparso prematuramente, che strutturerà l’atelier milanese di Marucelli in maniera innovativa con mobili razionali, abbandonando così l’arredamento tradizionale e ricco di decorazioni comune alle sartorie importanti dell’epoca.
Nel rapporto artista-stilista, la collaborazione più famosa e forse più riuscita, rimane quella tra Marucelli e Getulio Alviani. Quando incontra Germana Marucelli, nella prima metà degli anni ’60, Alviani è giovane ma è già conosciuto per le esperienze nell’ambito delle ricerche plastiche e visive; sono già note le sue “Superfici a testura vibratile” superfici che, a seconda della luce e del movimento dello spettatore, assumono una configurazione diversa.
Alviani approfondisce poi le esperienze legate all’arte cinetica, oggetti e forme che per vivere hanno bisogno del movimento. Le sue opere basate su geometrie e contrasti, luce e ombra, bianco e nero, affascinano molto Germana Marucelli. È un progetto culturale completo che Marucelli cerca di tradurre in alcuni modelli elaborati con Alviani tra il 1963 e il 1965 in uno degli esempi più interessanti di collaborazione tra artista e stilista.
Nel catalogo della mostra “Arte Cinetica”, tenutasi a Trieste nel 1965, Gillo Dorfles sottolinea l’importanza del movimento per le opere cinetiche perché “il più delle volte l’oggetto allo stato di quiete non ha praticamente nemmeno un’effettiva esistenza, ma ha soltanto un’esistenza virtuale che sarà resa effettiva dalla sua messa in moto.” (5) È una sperimentazione che trasportata agli abiti e alle stoffe non concede niente al lusso o alle decorazioni di facile richiamo; sono invece elementi fondamentali l’equilibrio e la precisione, in un’impostazione quasi più da progettista che da artista. L’utilizzo per dei tessuti di abbigliamento di questi disegni quindi non è solo decorazione, è piuttosto il tentativo di concretizzare i principi teorici dell’arte cinetica con la collaborazione anche di chi indossa il capo, come sottolinea un altro critico, Carlo Munari, che nel 1966 scrive che “dalle stagioni remote dell’Art Nouveau più non è esistita un’organica unità stilistica nelle formulazioni creative, i tentativi di allargare fin nei beni di consumo l’esito di peculiari esperienze si costituiscono altamente positivi.” (6)
Altri stilisti del tempo si ispirano all’arte optical ma spesso si limitano alla tipica decorazione in bianco e nero, ai disegni a quadrettini di Bridget Riley, banalizzati o addirittura riprodotti senza il consenso diretto dell’artista. Nel caso delle collezioni Marucelli-Alviani non è più l’omaggio indiretto che il sarto fa a un certo artista o la riproduzione di disegni dell’artista sulle stoffe da abbigliamento, ma un abito che è una vera e propria opera d’arte. Il movimento richiesto all’arte cinetica infatti, non nasce dal movimento di chi osserva, ma dal movimento dell’opera stessa, indossata e vissuta.
Tra i modelli più citati della loro collaborazione troviamo un abito in due pezzi di seta plissettata bianco e nero, che appare scuro e uniforme nei punti dove la stoffa è ferma, ma rivela contrasti chiari appena chi lo indossa si muove, l’abito da sera chiamato “Positivo / Negativo”, a strisce orizzontali bianche e nere di larghezza progressivamente variabile, il modello “Cerchio + Quadrato”, di una collezione successiva, in cui il movimento è dato dalla luce che si riflette su un disco di metallo nella parte superiore. Alcuni capi possono ricordare Courrèges, per severità e precisione del taglio, ma a differenza dello stilista francese, sono modelli facilmente indossabili, che verranno riprodotti anche per una marca di confezioni industriali.
Irene Brin, professionista nei due ruoli di gallerista d’arte contemporanea e giornalista di moda e costume, è tra le prime ad apprezzare la proposta di Marucelli. Recensendo le sfilate primavera estate di Palazzo Pitti nel gennaio 1965 sottolinea con ammirazione: “A Venezia quest’anno si è premiata la pop art, tramontata, trascurata, travolta da almeno tre correnti successive. E qui a Firenze, Germana Marucelli rende popolare con un colpo solo l’op-art, l’optical art, l’arte cinetica. (…) Germana dà oggi un’altra prova di coerenza con sé stessa, perché continuamente si aggiorna proprio attraverso il contatto con artisti. Non cederà al conformismo, ci possiamo giurare e lo dimostra non solo con la op-boutique ma con un’alta moda giovane, brillante, ampia nel movimento per il giorno, affusolata e regale per la sera”. La recensione prosegue poi descrivendo il resto della collezione che presenta “Tre-pezzi in shantung fiorato, con il corpino scollatissimo, la gonna-pantalone, il giacchino avvitato. O giacchette di lana, esili alla cintura, ampie alle spalle, sugli scolli di vesti in grosso shantung, a tono contrastante”. (7)
Come venti anni prima aveva anticipato Dior e dieci anni prima Balenciaga, tra il 1967 e il 1968 Marucelli precorre anche Paco Rabanne, proponendo abiti con decorazioni di metallo; prosegue la collaborazione con altri personaggi del mondo dell’arte, tra cui il disegnatore Moreno per una collezione Liberty, con motivi floreali, in linea con le tendenze decorative del momento.
Il fotografo Pasquale de Antonis, fotografo fortemente influenzato dalla pittura, il primo in Italia ad aver esposto in una galleria d’arte contemporanea, realizza il suo ultimo reportage di moda proprio con i modelli di Marucelli indossati a Roma alla prima del film “2001 Odissea nello spazio”. Il rapporto con Alviani segna in qualche modo l’apice della collaborazione di Germana Marucelli con gli artisti contemporanei; con la fine degli anni ’60 e l’affermazione della moda pronta, le grandi sartorie come la sua, pur continuando a lavorare per una clientela esigente e raffinata, capace di apprezzare oltre alla ricerca e all’inventiva anche la grande abilità tecnica sartoriale, cedono progressivamente il passo alla confezione di massa. Con gli anni ’60 termina anche l’idea dell’eleganza intesa come artificio contrapposto alla naturalezza, come perfezione di uno stile portato all’estremo.
Tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, parallelamente all’affermazione internazionale del pret-à-porter italiano, chiudono molti atelier che hanno vissuto insieme a Marucelli l’avventuroso esordio del made in Italy, come Simonetta, Alberto Fabiani, Carosa, Maria Antonelli, Schuberth, Federico Forquet.
Già nel 1964 Irene Brin immagina un futuro dove domina la moda pronta, pratica ma un po’ anonima. “Il ready to wear e il negozietto buffo si affidano, infatti, a compratrici ignote che vengono, scelgono, pagano, spariscono. La Haute Couture si regge solo sulle esigenti, sulle squisite, sulle miliardarie, che drammatizzano il bottone e insistono sull’appiombo” (8)
Nel gennaio 1972 sfila a Palazzo Pitti l’ultima collezione primavera-estate di Germana Marucelli. La stilista resta affezionata alla lavorazione perfetta del pezzo unico e, pur conservando una clientela privata, sceglie di non partecipare più alle sfilate ufficiali.
Fa in tempo a vedere il trionfo mondiale dello stile italiano e l’affermazione di Milano come capitale della moda, ma il successo del made in Italy è soprattutto legato al pret-àporter; sempre coraggiosamente controcorrente, Germana Marucelli sceglierà di dedicare gli ultimi anni di attività all’insegnamento delle abilità acquisite in quasi sessanta anni di lavoro ininterrotto, intuendo la necessità di tramandare la cultura dell’alta sartoria e chiudendo così il cerchio della sua lunga carriera di sarta, stilista e creatrice.
Si ringraziano: Giancarlo Calza, Silvia Casagrande (Archivio Storico Marucelli), Simona Tartarelli
NOTE
(1) F. Pivano Le favole del ferro da stiro, East 128, Milano, 1964, pag. 9.
(2) “Pezzi di moda” di Laura Leonelli in Ventiquattro, ottobre 2001 pag. 57.
(3) “Pezzi di moda” di Laura Leonelli in Ventiquattro, ottobre 2001 pag. 57.
(4) F. Pivano Le favole del ferro da stiro, East 128, Milano, 1964, pag. 9.
(5) Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Trieste – Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste, Arte Cinetica, Trieste, Palazzo Costanzi, luglio-agosto 1965.
(6) “Alviani” di Carlo Munari in Linea Grafica, n.2, marzo-aprile 1966.
(7) “È suonata l’ora della op-art” di Irene Brin in Il Corriere di Informazione, 19-20 gennaio 1965.
(8) “Una Roma di gennaio” di Irene Brin, Bellezza, febbraio 1964
pag. 89.
BIBLIOGRAFIA
G. Butazzi, A. Mottola Molfino (a cura di) La Moda Italiana. Le origini dell’Alta Moda e la maglieria, Electa, Milano, 1987.
G. Butazzi, A. Mottola Molfino (a cura di) La Moda Italiana. Dall’antimoda allo stilismo, Electa, Milano, 1987.
G. Vergani (a cura di) Dizionario della Moda, Baldini & Castoldi, Milano, 1999.
Antonio Giusti La casa del Forte dei Marmi, Le Lettere, Firenze, 2002.
F. Pivano Le favole del ferro da stiro, East 128, Milano, 1964.
“Alviani” di Carlo Munari in Linea Grafica, n.2, marzo-aprile 1966.
Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Trieste – Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste, Arte Cinetica, Trieste, Palazzo Costanzi, luglio-agosto 1965.
“Pezzi di moda” di Laura Leonelli in Ventiquattro, ottobre 2001.
“È suonata l’ora della op-art” di Irene Brin in Il Corriere di Informazione, 19-20 gennaio 1965.
“Una Roma di gennaio” di Irene Brin, Bellezza, febbraio 1964.

Imagerie art fashion: telling an exhibition (by Maria Campitelli)
Imagerie art fashion: telling an exhibition
Maria Campitelli
Imagerie: or the explosion of an imagination that becomes a figure, of a fantasy that caresses the body and insinuates itself between the skin and its chrysalis, which explores and ransacks art’s territory, assimilating whatever it finds into fashion, overturning and violating the concept of boundaries, making ‘contamination’ its banner and shamelessly invading the media, battening on everything it finds. Imagerie: a mix of art and technology, analog and digital languages, mechanical imagination and craftsmanship consummated somewhere between ‘tailoring’ and ‘dressmaking’, a perilous invention of visual hyperbole which expands upon and confirms the changeable fragility of fashion, that Queen of modernity crowned more than a century and a half ago by Baudelaire; with close-knit techno/scientific itineraries as its inevitable background. And all this around and for ‘the sentient body as the first work of art’, as Merleau-Ponty affirms in ‘The Phenomenology of Perception’.
Imagerie: as a meeting-place, an incessant coming-andgoing between the freedom of art and the needs of fashion, in its infinite variants, from high fashion to the diligent work of the dressmaker, where the body, receptacle of perceptions and sensations is the fundamental fulcrum. A body – plastically 3-D – over which 2-dimensional fabrics/non-fabrics are modelled and designed. But fabrics which are ready to transform themselves into blown-up volumes, or into two-dimensional photographs, and which draw unlimited sustenance and fantasy from them. With projections into a possible future of cloned bodies, glacial robots, nostalgia for a lost humanity.
And thus, a world which is phantasmagorical and polyhedral, suspended between the immateriality of the virtual and the tangibility of the technical, which embraces both dream and the labour of the humble but precious work of dressmakers and tailors.
A world which makes major inroads into the artificial, beginning with non-textile materials, polyesters, polymers and polyvinyl all petroleum derivatives, synthetic fibres which replace natural ones, and to an equal degree in both fashion and art.
From kinetic and programmed art, transposed by Getulio Alviani into wearable fabrics for Germana Marucelli, to shibori alchemy by Patricia Black, who ascends from the technical to free, fantasy-filled creations. Her clothes swell up in the air, becoming theatrical costumes. Art that becomes fashion and fashion that elevates itself to art. Fabrics which give way to plastic, and glass clothing/sculptures which intersect with the cathode rays of video. We find industrial techniques and materials, such as the virtually impracticable ‘techno-gel’, used to model an artist’s dress (that of Lucia Flego) in the experimental test of a product’s tractability when applied to unlikely or improper uses, as often happens in the course of art. Barriers – not only between art and fashion, but also between art and industry – are thus swept aside.
The photographic image – the essential and indispensable support for fashion – powers Imagerie with its unlimited potential, when the myth of history mingles with the starsystem in visions with a violent visual impact, such as those by David LaChapelle, or when digital power invents an absolute (though virtual) beauty, such as Micha Klein’s ‘Artificial Beauty’.
Photography is most often present in the form of a brand’s advertising. C.P. Company has substituted this aspect with an exhibition: ‘C Pictures’. Four international photographers – Gianni Berengo Gardin, Martin Parr, Gueorgui Phinkassov and Sandro Sodano – explore the new company show-room (the company was founded in the ‘70’s, with the goal of pursuing a new idea of casual-wear), each with his own point of view, examining it from both inside and out, and relating it to a concept-filled survey of everyday reality. Imagerie also includes the scholastic research of the Textile Technology and Fashion Design institutes of various high schools and universities from the countries of Eastern Europe – Slovenia, Croatia, Slovakia and Serbia – thereby inviting a comparison between East and West.
All this flows into Imagerie, which is divided into three sectors distributed among numerous locations throughout the city: the episode of Getulio Alviani, the earliest example within the exhibition of the profitable exchange between art and fashion; the central sector of the exhibition, in the multiform and poly-semic agglomeration of artists, stylists and photographers, performers included; and, thirdly, the specific sector of the schools, with their varied and rigorous experimentation, and the updating of materials and the fashions which are increasingly at variance with the traditional concept of clothing – understood as covering, vestment – to embrace newer, freer and more essential concepts, in an area pioneered by Alviani.
Curiously, in this complex itinerary characterised by a multitude of different approaches, the circle closes. The Serbian stylist Vesna Stojkovic´, in her ‘summer’ collection presents a dress with black and white diagonal stripes. The Faculty of Textile Technology of Zagabria, guided by the able hand of Tonåi Vladislavic´, presents the most recent collection entitled ‘The Eye of Geometry’ which, with an obligatory updating to the 3rd Millennium, links up with the ‘New Trend’ imported by Getulio Alviani in the ‘60’s.
A beginning and an ending which touch hands, in a continuum which finds in scientific-geometric premises its indispensable underpinnings, notwithstanding the appearance of chaos, marketing, advertising, neo-baroque, in short, the excess which connotes both the present time and this art-fashion sector which mixes culture and ‘highsociety’.
IMAGERIE also has its own precedents. In 2001, there was ‘Garden Fashion’, an international exhibition promoted by Group 78 I.C.A in the unrepeatable setting of the newly restored hothouse of the Villa Revoltella in Trieste. As in an uninterrupted window display open for viewing, a transparent case hosted 9 artists who have used clothing as a fertile pretext for individual researches, going beyond its customary use to become, as in the case of Mimi Farina with ‘Growing Dress’, a living, growing organism which ‘overflowed’ from the Hothouse into the garden to become part of the lawn. There was also the fragile silicon dress by Fabrice Langlade, which offered a vehicle for displaying a transparent script that was legible in the shadow projected on the wall, and Susy Gomez’s ‘vestido/corazza’ a hard metal dress charged with an allusive meaning of defence, and thus a more general concept of the condition of women in our society.
These creations all took their departure from clothing, an element with ancient anthropological roots, to call into question other aspects, while still maintaining that aura of glamour which pertains to the universe of fashion. In 2002, there was ‘Other Fashion’, also promoted by Gruppo 78 I.C.A. , conceived as a transversal event for the 10th Anniversary of the ‘Mittel moda’ fashion show in Gorizia. The ‘other fashion’ was once again that of artists and artisans working in areas analogous to that of fashion, but executed with other intentions or means, such as the hundreds of gaudily coloured plastic bottles used in Enrica Borghi’s dress. As a corollary, there was also the work of famous international photographers, such as Anton Corbijn, Micha Klein, Friz Kok, Roy Stuart. While not strictly connected to the advertising images of specialised magazines and journals, they are free creators of seductive visual stories, in some way contiguous to or evoking the vast world of fashion.
Imagerie is posed solidly on these foundations, while also expanding upon them. The investigation is still one of identity, the minimal discrepancy existing between the two areas, and where that discrepancy is to be understood as the functionality of Fashion with respect to Art. These two worlds (and photography, as well) are now practically inextricably intertwined, such that it is often difficult to determine where the photographic reportage ends and art begins, or where one is dealing only with art – a situation complicated even further by the wide use of the photographic image by artists in recent years. The traditional boundaries demarcating their respective territories – in terms of languages and techniques, artistic invention and practical use – have thus been eliminated. In widening our discourse to include some recent major events, special mention should be made of the attempt to legalise the reciprocal incursions of Art and Fashion, with the Fashion Biennial in Florence, in 1996, where artists were matched with stylists and worked together as pairs in creating their installations.
A year earlier, Roberto Cappucci had appeared at the Venetian Biennial with 12 sculptures that made the simple definition of clothes seem a bit limiting, even though the images in profile referred to precisely that. Which meant that it became necessary to recognise the artistic value of certain forms of high-fashion, though without eluding a certain basic ambiguity, as Sabrina Zannier pointed out in her article for ‘Garden Fashion’. History thus testifies to the constant aspiration on the part of Fashion to rise to the level of Art, and be confounded with it, while Art repays this tendency with a replay for Fashion that is not just a courtesy, but is motivated by various factors, such as: access to prestigious locations controlled by Fashion (the famous foundations, from Prada to Fendi, from Pitti Immagine Discovery to Ratti), the sponsorship of exhibition events and hospitality in various maisons with new marketing possibilities. In addition, important cultural initiatives often involve fashion directly. Among recent events, we need only mention ‘The fourth sex’, curated by Francesco Bonami and Raf Simons, which hosted a nearly equal number of artists and stylists, a choice explained by the fact that fashion finds a fertile terrain among teenagers as a solicitation and as consumers, and because the event was organised by Pitti Immagine Discovery.
Finally, there is the reality of the new museum institutions being established primarily in northern Europe, in which a fashion section has become as obligatory as the sections for graphics or photography. In Anvers, Belgium, currently one of the most fertile and forward-looking countries in terms of fashion culture and proposals, the MOMU, a museum (though perhaps ‘fashion temple’ would be a more appropriate term) entirely dedicated to fashion, the collections of which consist of striking exemplars from the 17th Century to the present day, was inaugurated in September, 2002. The museum also includes a special section for contemporary Belgian stylists, such as Dries Van Noten, Dirk Van Saene which have made Belgium an international fashion capital, as well as younger stylists, such as A.F. Vander Vorst and Wim Neels, who are among the most requested by all the most important fashion meetings and events.
Imagerie art fashion: Getulio Alviani & Germana Marucelli (by Maria Campitelli)
Imagerie art fashion: Getulio Alviani & Germana Marucelli
Maria Campitelli
IMAGERIE Art Fashion begins with a historical nucleus. The exhibition will open at the Revoltella Museum with the creative alliance between the artist Getulio Alviani and the stylist Germana Marucelli. Getulio Alviani is the well-known plastic ideatore who made a major contribution in the ‘60’s to the affirmation and diffusion of kinetic and programmed art. As opposed to other artists of the period who formed groups that worked together as a team, such as Group T in Milan and Group N in Padua, Getulio Alvian worked alone, basing his research on a technical and scientific foundation which superseded and bypassed the operational methods and aims of the informel which had dominated the previous decade.
The precursors of this artistic approach are to be found in historical constructionism, Bauhaus, and in the concrete art promoted by the Italian critic, Gillo Dorfles. The key elements of Alviani’s work – in which geometry, a formal cleanness and essentiality appear as constants – are a basic constructionism, an intensification and expansion of the potential of visual perception through the use of light as the decisive gradient in his ‘vibratory weave surfaces’, and the intuition of an artefact which lives in the moment and is modified and completed by the direct intervention of the observer.
There is the will to create order among the things of the world, and to eliminate the barriers between art and the technical. What thus predominates is a rationality which contains and restrains emotional impulses. This is the opposite of the visceral orgy, the instinctual actions pursued by the informal. There is the desire to adhere to reality in the phenomenological sense (this was the period when Husserl’s theories enjoyed their widest diffusion), such that ‘a black enamel struck by light becomes a white point’, (as Getulio Alviani stated in a text written in French between 1964-1970, for his one man exhibition at the gallerie Denise René). This provided the starting point for a phenomenological research into reality ‘in itself’, a research which involved the use of metals, steel, aluminium, the first light-lines and luminous vibrations which varied depending on the observer’s visual angle.
The vibratory potential of the object + the behaviour of the user creates a ‘situation’.
It was thus necessary to change the concepts and methods of art as practised hitherto, in order to create ‘situations’ with the participation of the public. This produced a ‘new trend’ which was based on movement and mobility, and hence on the mutability of what we perceive, which, in turn, created the need to programme visual combinations. Programming (‘programmed art’ was a term coined by Umberto Eco for the 1962 exhibition in the Olivetti shop in Milan) begins with elementary modules in b/w which multiply, overlap, intersect and alternate black and white to produce constantly renewed solutions.
In 1963 he initiated an occasional collaboration with Germana Marucelli, in the course of which he designed fabrics that incorporated his ‘programmed’ experience. Marucelli utilised these fabrics in fluid gowns of pleated silk, while Alviani created ascetic sheath dresses. The infinitely varied optical effects produced by movement resulted in an immediate trend. ‘Op’ fashion, as it was dubbed by all the press of the time, was born, despite the reservations of some critics who, aware of the historical premises and the very specific nature of a research which had scientific affinities, viewed the label as banal and reductive. In fact, this merging of art and fashion had illustrious predecessors in the clothes designed by Balla in 1914 and Depero’s vests in the ‘20’s, and in Sonia Delauney’s research into geometric/chromatic relations for her fabrics with a new visual impact.
The play of ‘op’ on ‘pop’, the other movement which had exploded on the East Coast of America at nearly the same time, resulted in a number of exhibitions which were modelled precisely on this affinity, such as the ‘op on the pop’ exhibition presented in the Feltrinelli bookstore in Trieste, in 1967.
Marucelli’s atelier in Milan became a meeting-place for the artists, critics, poets and intellectuals of that time. The new location, which was inaugurated in order to present these new models, was conceived by Paolo Scheggi, another key figure of that period. Scheggi’s project was purposely tuned to Alviani’s wavelength (who, it should be recalled, was trained as an architect), as well as to that of Agostino Bonalumi and Enrico Castellani. He projected a very special and modifiable structure which could be transformed instantly from a workshop to runways and platforms for fashion shows.
In the following years, Alviani’s interests widened to include other portable and wearable objects, such as jewellery and watches, instilling in them his formal geometric minimalism and irony, such as the timeless watch, with no indications of the hour, or the paradoxical aluminium earring of exorbitant dimensions.
Among the results of this extraordinary encounter between art and fashion, culture and high-society, the exhibition presents the famous dress, ‘positive/negative’: a sliding scale in expansion or compression composed of horizontal black and white lines, in heavy cotton. This garment was immortalised by Ettore Sottsass jr. in a suggestive image inside a hothouse, the linear structure of which repeated and amplified that of the fabric. There is also the airy dress in silk chiffon with a skirt pleated like the rays of the sun which transforms itself continuously with movement, becoming a living work of art and an inexhaustible source of optical/perceptive variations (as documented in a series of splendid and much-publicised photographs by the architect Sottsass, and also by Ada Ardessi). The source of this visual phantasmagoria is the modular matrix of the design. With respect to Ardessi, the exhibition offers an extraordinary, unpublished photographic sequence of a fashion show which took place in Marucelli’s legendary atelier, in 1964. And then there is the sober ‘wrap-around’ decorated with a large aluminium disc, called ‘circle + square’ (which, with the addition of ‘= volume’ is also the title of a completely different 3-D work from 1967).
In effect, Alviani’s optical-kinetic research transfers intact to clothing and, as the ideatore himself affirms, at the outset it was not fashion for its own sake which intrigued him, but the dynamic potential it possessed thanks to the body’s movement.
Alviani would later develop his own fashion ideas, and with the aid of the American, Rudi Gernreich, another ingenious collaborator in fashion, he produced ‘Bat(h)tape’ (1966), a swim-suit reduced to two strips of special adhesive tape (developed together with a major manufacturer) which let the sun’s rays through, stretched in a V from the shoulders to the crotch. The result was a kinetic geometry reduced to its maximum degree and a prescient anticipation of the nude look. However, the intention was not non-conformist, as non-conformity is impossible in the banal and generalised uniformity of mass media nudity. Instead, the approach was based upon Alviani’s belief that clothing should become one with skin, that skin should be substituted by a substance that can conform to it perfectly, or be assimilated by it, in order to maintain a constant temperature regardless of external conditions (recalling that the basic function of clothing is to protect the body from thermal variations).
A series of photos from the ‘70’s and ‘80’s, entitled ‘operation O’ and ‘in(m)position’, which depict the pubis and a portion of the thighs moulded with a formal absoluteness comparable to the forms of Arp or Brancusi, demonstrate that the body, especially in the splendour of youth, is an auto-referential aesthetic machine. The artist’s work continues to declare exactly what is, without false modesty or metaphorical removes, in an almost phenomenological sense. This approach continues with the emblematic image of ‘open’ and ‘dressed, open-faced model, completely open’, from the early ‘90’s, which expresses Getulio Alviani’s sense of women as defiant but open, willing. Here, the formal cleanness becomes in some way abstract classical rarefaction, and this despite the realistic legibility of the entire body which, in the succinct black dress, reveals the pudenda: a non-conformist image indeed! Devoid of the voyeurism which normally invests the female body, ‘open’ does not allude to something which is hypocritically meant to be understood, but reveals it directly with detachment and an exquisite plastic elegance.
Fashion is thus subsumed by beauty, insinuates itself into the skin, lives with it and identifies itself with the natural harmony of the body, above and beyond any sort of superstructure.
Art enters the boutique: Germana Marucelli & Getulio Alviani (by Luciano Panella)
Art enters the boutique: Germana Marucelli & Getulio Alviani
Luciano Panella
Germana Marucelli (b. Florence, 1905) grew up in an atmosphere of refined craftsmanship and began working at a very early age with her mother and aunt, who were quality dressmakers.
In the ‘20’s and ‘30’s, the Paris dressmakers such as Chanel, Alix, Schiaparelli and Vionnet set the standards for taste and fashion, with their Italian counterparts buying and copying the French models. Endowed with a great capacity for observation and a strong visual memory, Marucelli was extremely gifted in reproducing the French models which she saw during the French fashion shows. Thanks to her abilities, she began to work for the Milan dressmaker Ventura, one of the most important in Italy.
The nationalistic self-reliance imposed by Fascism interrupted this relationship of dependency on France; the government tried in every way to promote the use of national products and textiles, and forbade Italian dressmakers to copy foreign models.
Marucelli, who had a strong and independent character, initially rebelled against these restrictions, and continued to attend the Paris fashion shows even after the outbreak of WWII. However, the war eventually forced her to interrupt her own work and, after various difficulties, she resumed her activities in Stresa, where a number of well-to-do women and their families had sought refuge. For the first time, Germana Marucelli was forced to also become a stylist. As Fernanda Pivano recalls: ‘Germana had to face this problem without Paris as an example to follow. What no one had been able to force her to do by coercion, took place of its own accord’. (1)
The dean of fashion journalists, Maria Pezzi, remembers well the first ‘collections’, which were made with the available war-time materials: ‘ White clothes with tight corsets that emphasised the wasp-waist. This was absolutely new, even with respect to the French, so that the Milan dressmaker’s creations anticipated the new look by Dior’. (2)
At the end of the war, with the gradual return to normality, the representatives of many dressmakers resumed their trips to Paris. They would continue to do so for much of the post-war period, taking their inspiration from the important new names in Paris, such as Fath, Balenciaga, Balmain and Dior, in the belief that an Italian product would be considered too provincial and unrefined.
Marucelli was not the only Italian dressmaker who was forced by the circumstances of the war to produce her own creations. Now that the war was over, she did not feel like going back to reproducing the French models. However, a large maison like hers provided work for many people and abandoning the Paris influence could result in economic ruin. Not only clients, but suppliers, the specialised press and many colleagues were opposed to the idea that Italian dressmakers should create their own models.
Marucelli was increasingly convinced as to the enormous potential of Italian craftsmanship, especially in the area of everyday wear. As Maria Pezzi notes: ‘Marucelli, a strongwilled woman who hosted artists like Giuseppe Ungaretti, Alberto Savinio, Eugenio Montale and Salvatore Quasimodo in her salon, would be the only one not to attend the Paris fashion shows of 1947’. (3)
The transition from dressmaker to dressmaker-stylist was not an easy one and, as Fernanda Pivano has pointed out, Marucelli increasingly sought the support of the intellectuals and artists with whom she had always surrounded herself and for whom she felt a strong affinity, convinced that she, too, was a ‘creator’.
The consecration of a true Italian style occurred with the Florence fashion shows organised by the Marchese Giorgini at Palazzo Pitti in the early ‘50’s. For the stylists who participated with their own creations, such as the Fontana sisters, Simonetta and Alberto Fabiani, these shows constituted a considerable risk, but also a remarkable opportunity and offered encouragement to continue with their own work.
Pivano recalls Marucelli’s first show at Palazzo Pitti: ‘And so in July of ’51, in Florence, before a chilling silence, (Marucelli) presented a winter collection entirely dedicated to the Empire style (…) The collection was in black velvet and gold brocade, black wool and black velvet, in stoffe da tailleurs mélange blue and black or red and black, and in the thick fabrics that were just appearing then and would later be developed extensively. The models were sober and mysterious, with a bearing both ascetic and aristocratic. Germana had invented the modern stil novo dolce and the audience was disconcerted at the sight of women who resembled 14th Century Pisan wood-sculptures’. (4) In the atmosphere of moral and economic rebirth of the post-war period, Marucelli participated in a number of innovative initiatives to promote fashion ‘made in Italy’, such as the fashion show/performance at Palazzo Grassi organised by the International Centre for Arts and Costumes in Venice.
The most famous commercial and high-society event of that period, once again organised thanks to the extroverted and enterprising efforts of the Marchesa Giorgini, was the ‘Fashion Ocean Liner’ in 1956, a fashion-cruise aboard the ‘Christopher Columbus’, bound for the United States. During the crossing, a number of rich, young and beautiful noblewomen from Italy served as testimonials for some of the more important Italian fashion houses by wearing a full range of apparel that had been designed for every hour of the day. Marucelli was represented by Kiki Brandolini d’Adda and Camilla Cederna, who also made the crossing, described the event in a serious of famous articles for ‘L’Europeo’.
Germana Marucelli had become an international success. During this prosperous period, each year saw the launching of a new line, often with suggestive names: ‘Chrysalis’, ‘Little Brother’ and ‘Corn-cob’. This latter appeared at the end of the ‘50’s, shortly before Balenciaga proposed a similar collection, the famous ‘sack’ line, which took its inspiration from the Italian stylist. Well-known figures such as Evita Peron, actresses such as Silvana Mangano and Rosanna Schiaffino and singers such as Milva were just some of the famous clients who wore models designed by Marucelli during this period. However, the stylist preferred not to identify her own creativity with that of a famous figure of reference, a policy she maintained during all of her professional career and which derived from her decision to always give priority to the creative, rather than the commercial or spectacular aspect of her work.
Thanks to her success, Germana Marucelli was free to fully explore the basic idea behind her work, i.e. that clothing was a work of art and the result of a cultural elaboration, with an emphasis on both portability and creativity. A cerebral approach, one might say, which Germana Marucelli lived as an intellectual, surrounding herself with the cultural figures of the time, who attended her ‘Thursday salon’, and organising initiatives unrelated to fashion, such as the San Babila literary prize for poetry. Marucelli counted many artists among her friends: Casorati, Gentilini, Savinio and Campigli, who painted her portrait in 1950, depicting her in profile, with her hair done up in the characteristic bun.
Marucelli was attracted by artists who proposed strong contrasts and the juxtaposition of decisive colours and her collections often reflected the tendencies of the contemporary art of the period.
At the end of the ‘40’s, shortly before the fashion of the exotic exploded internationally with figures such as the singer Yma Sumac, Marucelli offered a collection inspired by Peruvian art, conceived together with the set-designer and artist Pietro Zuffi, with whom she would collaborate for many years. Two years later, Campigli designed some motifs for the 1951 Spring-Summer collection and throughout the ‘50’s the themes and atmosphere of a particular artist was almost always present in her collections. The art-fashion connection could also be indirect, as when a collection was associated with a particular artist for a photographic feature, such as the 1957 collection ‘Homage to Picasso’, while in the collections inspired by Beato Angelico or Botticelli, Marucelli’s homage was more of a general reference to the style of a given artist, rather than a specific re-proposal of certain models.
In 1960, Manzù’s famous ‘bishops’ inspired Marucelli to introduce a variation in the Empire line, while her 1962 collection was dominated by Capogrossi’s black and white geometries.
The early ‘60’s witnessed another important collaboration with the artist and architect Paolo Scheggi (who died in 1971, at only 31) who structured Marucelli’s atelier in Corso Venezia in an innovative way, with mobile walls and rational furnishings, thereby abandoning the traditionally rich decorations common to the most important dressmakers of the period.
The most famous and, perhaps, most successful artiststylist collaboration was with Getulio Alviani. Though still a young man when he met Germana Marucelli in the early ‘60’s, Alviani, was already known for his experiences in the area of programmed art and, in particular, for his ‘Vibratory weave surfaces’ which changed form depending on the light and the movements of the observer. Alviani went on to explore kinetic art, or objects and forms which need movement in order to come alive. Germana Marucelli was fascinated by his works based on contrasts between light and shadow and black and white, and what she attempted to transpose into a number of models created together with Alviani between 1963-65 was a complete cultural project. The results remain among the most interesting examples of a collaboration between artist and stylist.
In the catalogue for the exhibition ‘Kinetic Art’, presented in Trieste in 1965, Gillo Dorfles underlined the importance of movement for kinetic works, as ‘in most cases the object at a state of rest has almost no effective existence, but only a virtual one which becomes effective when it is set in motion’. (5) When transposed to clothing and fabrics this experimentation conceded nothing to luxury or easily recognisable decorations. Instead, the fundamental elements were balance and precision, in an approach that was almost closer to that of a technical draughtsman than an artist. The use of such designs with fabrics was thus not merely decorative, but an attempt to give tangible form to the theoretical principles of kinetic art with the collaboration of the person wearing such apparel. As another critic, Carlo Munari, wrote in 1966: ‘not since the remote annals of Art Nouveau has there been such an organic, stylistic unity in the creative formulations, while the attempt to extend the results of very specific experiences even to consumer goods is extremely positive.’ Other stylists of the period were also inspired by optical art, but generally limited themselves to a typical decoration in black and white such as the chequered designs of Bridget Riley, which were either rendered banal or reproduced without the direct approval of the artist. In the case of the Marucelli-Alviani collections, the dressmaker no longer makes an indirect homage to the artist or reproduces the artist’s designs on clothing, but produces a garment which is a true work of art. In fact, the movement required by kinetic art is not provided by the observer, but by the work itself, which is worn and ‘experienced’.
Among the most celebrated models from this collaboration we find a two-piece in black and white pleated silk which appears dark and uniform when the fabric is still, but as soon as it is put on and begins to move reveals clear contrasts in the folds; the evening gown ‘Positive / Negative’, a long tunic with black and white horizontal stripes that vary progressively in width and, from a later collection, the model ‘Circle+ Square’, in which the movement is provided by the light reflected by a metal disk in the upper half of the garment. The severity and precision of the cut might recall Courréges. However, contrary to the French stylist’s productions, these models are easy to wear and were produced for a mass-market clothing brand. Irene Brin, a fashion and current trends journalist who also managed a contemporary art gallery, was among the first to appreciate Marucelli’s efforts. Reviewing the Spring- Summer fashion shows in Palazzo Pitti in January, 1965, she expressed her admiration: ‘Venice this year has given the prize to a pop art in decline, which has been surpassed by at least three subsequent trends. And here in Florence, with one fell swoop Germana Marucelli makes op-art, optical art, kinetic art popular (…). Germana has demonstrated once again her personal coherency, as she continuously updates herself through her contact with artists. We can be certain that she will not bow to conformity, and she proves this not only with the op-boutique but also with a high fashion which is youthful and brilliant, full of movement for daytime wear, tapered and regal for the evening apparel’. The review goes on to describe the rest of the collection, which includes ‘three-pieces of flower-print shantung, with an extremely low-cut neckline on the bodice, trousers- skirts, and tight-waisted jackets. Or wool jackets, slender at the waist and wide at the shoulders, over necklines in heavy shantung and with contrasting tones’. (7)
Just as two decades earlier she had anticipated Dior and ten years before Balenciaga, between 1967 and 1968 Marucelli’s metal decorations on clothing were a precursor of Paco Rabanne. She continued to collaborate with other figures from the art world, including the designer Moreno with whom she produced a Liberty collection with floral motifs that reflected current decorative trends.
The photographer Pasquale de Antonis, whose photos were strongly influenced by painting and who was the first photographer in Italy to exhibit in a gallery of contemporary art, dedicated his last fashion reportage to models by Marucelli, worn at the Rome premiere of the film ‘2001: A Space Odyssey’.
The relationship with Alviani in some way marked the highpoint of Germana Marucelli’s collaborations with contemporary artists. With the affirmation of ready-made fashions, by the end of the ‘60’s the great dressmakers, though still continuing to work for a demanding and refined clientele capable of appreciating not only the research and inventiveness, but also the excellent craftsmanship, progressively lost ground to mass-produced clothing. The 60’s also marked the end of an idea of elegance which preferred artifice to naturalness, and sought the perfection of a style taken to an extreme. Between the end of the ‘60’s and the early ‘70’s, in parallel with the international success of the Italian pret-a-porter, many of the ateliers which had shared with Marucelli the adventurous emergence of ‘made in Italy’ – names such as Simonetta, Alberto Fabiani, Carosa, Maria Antonelli, Schuberth and Federico Forquet – were forced to close.
Already in 1964, Irene Brin foresaw a future dominated by ready-made fashion, practical but a bit anonymous: ‘in fact, ‘ready to wear’ clothing sold in droll shops depends on unknown buyers who enter, choose, pay and disappear. Haute Couture instead depends on the demanding, the exquisite and on millionaires who get dramatic about buttons and insist on ‘aplomb’’. (8)
German Marucelli’s last Spring-Summer collection was presented at Palazzo Pitti in 1972. The stylist remained attached to the perfect workmanship of the unique creation and, while still maintaining a private clientele, chose to no longer appear at the official fashion shows. She would live to see the international triumph of Italian fashion and the affirmation of Milan as a fashion capital. But Italy’s success was linked primarily to pret-à-porter and so, courageously non-conformist once again, Germana Marucelli chose to dedicate her final years to teaching the techniques and abilities acquired over almost half a century of uninterrupted work.
NOTES
(1) F. Pivano, Le favole del ferro da stiro, East 128, Milan, 1964, p. 9.
(2) ‘Pezzi di moda’, by Laura Leonelli in Ventiquattro, October, 2001, p. 57.
(3) ‘Pezzi di moda’, by Laura Leonelli in Ventiquattro, October, 2001, p. 57.
(4) F. Pivano, Le favole del ferro da stiro, East 128, Milan, 1964, p. 9
(5) Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Trieste – Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste, Arte Cinetica, Trieste, Palazzo Costanzi, July-August, 1965.
(6) ‘Alviani’, by Carlo Munari,in Linea Grafica, n. 2, March-April, 1966
(7)‘È suonata l’ora della op-art’, by Irene Brin in Il Corriere di Informazione, January 19-20, 1965.
(8) ’Una Roma di gennaio’ , by Irene Brin, Bellezza, February, 1964, p. 89.
BIBLIOGRAPHY
G. Butazzi, A. Mottola Molfino (ed.), La Moda Italiana. Le origini dell’Alta Moda e la maglieria, Electa, Milan, 1987.
G. Butazzi, A. Mottola Molfino (ed.), La Moda Italiana. Dall’antimoda allo stilismo, Electa, Milan, 1987.
G. Vergani (ed.), Dizionario della Moda, Baldini & Castoldi, Milan, 1999.
Antonio Giusti, La casa del Forte dei Marmi, Le Lettere, Florence, 2002.
F. Pivano, Le favole del ferro da stiro, East 128, Milan, 1964
Alviani’, by Carlo Munari,in Linea Grafica, n. 2, March-April, 1966
Azienda Autonoma di Soggiorno e turismo di Trieste –Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste, Arte Cinetica, Trieste, Palazzo Costanzi, July-August, 1965.
‘‘Pezzi di moda’, by Laura Leonelli in Ventiquattro, October, 2001
‘È suonata l’ora della op-art’, by Irene Brin in Il Corriere di Informazione, January 19-20, 1965.
’Una Roma di gennaio’ , by Irene Brin, Bellezza, February, 1964.
Getulio Alviani - Germana Marucelli
Getulio Alviani – Germana Marucelli
Abiti dell’atelier
Getulio Alviani è il ben noto ideatore plastico che negli anni ’60 contribuì largamente all’affermazione e alla diffusione nel mondo dell’arte cinetica e programmata. Alla base della sua ricerca c’è un fondamento tecnico e scientifico che rivoluzionò l’arte, portandola sul piano fenomenologico. Usando metalli per realizzarla dove la luce è un elemento fondamentale, complice delle superfici “a testura vibratile”, individuò nel movimento e nell’apporto diretto dell’osservatore, la possibilità di un ampliamento percettivo dell’uomo. La programmazione, partendo da moduli elementari in bianco e nero, comporta sempre nuove soluzioni visive. Questi concetti sono stati trasferiti sui tessuti progettati per gli abiti di Germana Marucelli, agli inizi degli anni ’60, creando il trend della moda “optical”. Il connubio arte-moda si realizza nell’atelier di Milano della Marucelli, punto d’incontro della più rappresentativa cultura dell’epoca, dove confluivano critici, artisti, poeti, letterati.
Eleanor Antin
Eleanor Antin
The Last Day from “The last days of Pompeii”, 2001 Chromogenic print
Le gigantografie di Antin ci riportano ad un mondo remoto, quello dell’antica Pompei prima del disastro. Dice l’artista: “le immagini di Pompei, sull’orlo dell’annichilimento, hanno sempre suggerito scomodi paragoni con il mondo contemporaneo, dove la vita alla luce del sole si trasforma in una luce scura in cui la crudeltà, il dolore e la morte occhieggiano ai margini della coscienza. Io scavo in una Pompei di mia invenzione, dove personaggi affascinanti vivono la loro vita innocente mentre il disastro li attende dietro l’angolo”. Queste puntualissime rielaborazioni californiane di uno scenario imperiale romano decadente, attraversato da vissuti di intenso e sensuale godimento, propongono una finzione che rientra agevolmente nel regno fittizio e mutevole della moda. E’ una moda del vivere, sorretta da costumi appropriati, che ci conduce nel sogno, nella ricostruzione storica, in cui per un attimo vorremmo identificarci.
Curriculum
Gianni Berengo Gardin
Gianni Berengo Gardin
Milano – 4 dicembre 2002
Courtesy C.P. Company
Courtesy Lipanje Puntin
Con le sue inconfondibili immagini in bianco e nero, Gianni Berengo Gardin coglie una giornata di lavoro presso lo show-room di via Savona, a Milano in un andirivieni tra interno ed esterno del nuovo spazio dell’Azienda. Con il suo sguardo attento e penetrante, sembra voler sottolineare la continuità tra i nuovi spazi di C. P. Company e la storicità industriale dell’area circostante.
Curriculum
Patricia Black
Daniele Buetti
Daniele Buetti
Cristian Dior, 2003
C-Print, cm 70×100
Courtesy B&D Studio Contemporanea – Privat Collection, Milan
Il lavoro dello svizzero Buetti evidenzia uno stretto legame tra arte e realtà. Poliedrico nei media impiegati, dalla foto al light box, dall’installazione alla performance, alla body art, aggredisce, con i suoi eventi , l’industria della bellezza e della moda, il mondo dello spettacolo, come quello del mercato, lo star-system che s’infiltra e condizione anche il mondo culturale e lo stile di vita che ne consegue, pur subendo a sua volta il fascino del consumismo sistematico. Definito il “re del new-pop” allestisce performances dovunque, anche sulla strada, facendo confluire nel suo lavoro motivi politici, economici e sociali. Negli ultimi tempi ha usato visi e corpi di modelle per incidervi ,con particolari tatuaggi in rilievo, i nomi di star internazionali della moda, in una sorta di pubblicità feticistica e maniacale.
Curriculum
Enrica Borghi
Enrica Borghi
Gioielleria, 2000
Installation at the Galleria d’Arte Moderna di Bologna
Private Collection
E’ nota soprattutto per i suoi trasparenti abiti fatti di bottiglie o di sacchetti di plastica, tra cui primeggia la monumentale “regina” realizzata nel ’99 al castello Rivoli, ideata come una struttura praticabile all’interno della gonna. Un discorso dunque del riciclo del trash, che tende ad incidere anche sui disequilibri dell’ecosistema. Ma non solo questo : la ricerca di Boghi è ben più diramata; la affascinano i materiali artificiali prodotti dalla nostra era, dalle unghie di plastica alla carta stagnola, ma le sue operazioni – la pubblicazione anche di libri, come Zapping in love (2002) – contengono riflessioni più dilatate sul modo di essere oggi, sulla quotidianità, sulla propria identità rapportata all’altro in una cornice di fiabesca leggerezza, parafrasando con divertimento, le regole che governano gli attuali sistemi di comunicazione.
Curriculum
Daniele Controversio
Daniele Controversio
Fashion show for IT’S ONE, 2002
Giovane stilista siciliano, è il vincitore della prima edizione del concorso “It’s One” 2002, per la migliore collezione dell’anno. Studente dell’Università di Arti visive La Cambre a Bruxelles, e abbinato a DieselStyleLab, rivela una straordinaria creatività che sconfina da ogni canone prestabilito, e una dichiarata tendenza sperimentale. I suoi abiti sono accessoriati anche di finti animali, e tutto il corpo, dalla testa, munita di cappelli architettonici, evocativi in qualche modo di quelli spericolai di Philip Treacy e curiosamente mascherata, ai piedi con calzature in stile, viene stravolto da un concetto eversivo di moda, che guarda alla libertà illimitata dell’arte.
Curriculum
Caroline Broadhead
Caroline Broadhead
Waiting Game, 1997
L’arte sottile, trasparente e leggera di Caroline Broadhead, all’apparenza sembra tutta ruotare attorno all’abito, sospeso a mezz’aria, quasi per essere indossato. L’abito si relaziona al corpo e Broadhead ha svolto sempre sin dall’inizio, quando produceva ancora gioielli, una perlustrazione che implicava la corporeità, come referente del nostro essere e del suo personale vissuto; ma nel contempo l’analisi oltrepassava il vocabolario degli indumentoi, rasentando sfere emotivo psicologiche, metaforicamente concettuali. Il discorso più pregnante riguarda il rapporto dell’abito sospeso con la sua ombra; il gioco di luce ed ombra che acquista valori al di là dell’aspetto fenomenologico. L’ombra trattiene lo spirito, s’identifica con l’anima. La luce si materializza, l’invisibile diventa visibile, l’assenza diventa presenza, in una tensione che punta al sublime.
Curriculum
Mimi Farina
Mimi Farina
Troubled water, 2003
Glass, glue, methacrylate and video
cm 190x200x200
La plastica, nelle sue infinite varianti, è anche il suo regno, oggi penetrata dovunque nella produzione, dai tessuti all’oggettistica. Incline alla pratica del design, la interessa tutto quanto circonda la vita quotidiana dell’uomo: dagli arresi al gioiello, dall’accessorio personale, come le borse, all’abito. Nei suoi lavori è radicato il ifeirmento alla natura e alle problematiche che oggi l’assediano. “Drowing dress” è l’abito che cresce come gli oganismi viventi, “eruzione” è l’albero che fiammeggia dei bagliori di un vulcano in azione, tramite il video proiettatogli addosso. Il vestito per Imagerie, tutto di vetro, vive la trasparenza dell’acqua e insieme la tragedia dell’inquinamento.
Curriculum
Lucia Flego
Lucia Flego
Moon Light, 2003
Aluminium flakes,
aluminuim powder, glue
Ricercatrice per eccellenza, sperimentatrice di materiali e nuove contaminazioni linguistiche, con un’inclinazione alla geometrica pulizia formale del design, presenta qui due abiti, tra loro opposti, soprattutto per i materiali impiegati. L’uno tutto rivestito di minuscole scaglie metalliche, residuo industriale, di mutevoli effetti luministici, l’altro faticosamente costruito con un materiale riluttante, acquoso e pesante, destinato a tutt’altre funzioni, il techno-gel, che comporta necessariamente un taglio semplice, squadrato, quasi un recupero, degli anni ’60.
Curriculum
Franca Formenti
Franca Formenti
Bio Doll’s Baby, 2003
Photo by Massimiliano Mazzotta
Il punto i prtenza è la bio-doll. La donna senza ombelico, la donna clonata che non può partorire, modella inquietante di una postumanità dominata dall’artificio. C’è il riferimento a Beaudrillard, agli esseri anomphalici del futuro. Bio-doll’s baby è anche un tripudio di contaminazione, come sottolinea l’artista, tra arte, moda (l’abito indossato dalla modella è firmato Missoni, il cui marchio campeggia volutamente nell’immagine) ed etica hacker. L’anelito alla gestazione perduta comporta un vistoso cordone ombelicale posticcio, luminescente di fibre ottiche, cucito sull’abito, e il collegamento ad un computer che riproduce il battito cardiaco di un feto gestito in un utero artificiale.
Curriculum
Fiora Gandolfi
Fiora Gandolfi
Place St Sulpice, Paris 2003
Photo by Eva Rudling
Courtesy Studio Tommaseo
Produce abiti coloratissimi che non occorre stirare. All’opening il suo lavoro si sposa con la performance acrobatico di un danzatore cinese, Zhong Wu, allievo prediletto di Carolyn Carlson. Il racconto danzato insiste sull’alchimia della trasformazione, coinvolgendo il pubblico invitato a indossare gli indumenti lanciati nello spazio I suoi abiti/scultura, corrugati, impiastricciati, graffiti come i muri cittadini con frasi o insulti, o le giacche solcate da fenditure-ferite dalle quali sgorgano vermigli rivoli di sangue di raso, cambiano a seconda di chi li porta, mettendo in evidenza un principio, che il disordine e la violenza momentanea non sono il male e che l’ordine non è il bene.
Curriculum
Pina Inferrera
Pina Inferrera
Dafne, 2003
Metachrylate, optical fibres, water, sounds
cm 170 x 150 x height 255
soundtrack by Giulio Pizzuto
photo by Davide Bolzonella
Gioca con i materiali plastici, con i filamenti di poliestere, con la luce, con l’acqua. Il suo percorso è intessuto di “germinazioni”, di “crisalidi”, dove lo sviluppo biologico sottende la trasformazione e la crescita proprie della vita. Ancora una volta esplode il bisogno di trasferire le proprietà della vita naturale tra in grovigli dei materiali plastici, dotare di vitalità, per finzione, ciò che vita non ha, slittando anche sul terreno estetico. L’abito qui proposto è piuttosto una scultura/monumento. Parte dall’avvitamento di Apollo e Dafne del Bernini, per divenire albero, fontana. L’espressione totale verte ancora sull’ibridazione: tecnologia e plexiglas, il riverbero della storia sull’abito/natura.
Curriculum
Nataša Ljubojev
Nataša Ljubojev
Testimoni, 2002
assemblage
cm 180 x 50 x 50
Artista serba, con il suo lavoro rimembra la storia, gli usi e le tradizioni del suo paese. Qui si esprime con una performance rituale, in cui appaiono, come splendida testimonianza di un passato intriso di laboriosa artigianalità e di poesia, delle camicette ottocentesche. Ricami e paiettes, volants, e intrecci colorati, trattengono sedimenti di vita, echi di celebrazioni remote, di desideri, impulsi o delusioni, nascosti dietro l’eclatante facciata dell’abito della festa.
Curriculum
Clara Longobardo
Clara Longobardo
Volpe, 2002
Foam rubber covered with different elements
(nutshells, wood, bamboo cave, chicken net, fabric, plastic from bottles, palm leaves)
cm 80 x 120
Proviene dal mondo del teatro, avendo svolto attività di scenografa e di costumista, ma anche di regia e di macchinista. Ha avuto comunque una formazione artistica, e gli abiti da lei creati liberamente, fuori dal vincolo di commissioni, contengono un’aggiornata attenzione sui materiali impiegati, molto speso di origine naturale, come pietre rami secchi, e naturalmente i materiali plastici di scarto. Ne escono ancora una volta degli abiti scultura, dagli effetti falsamente preziosi dove è riutilizzato qualsiasi cosa, attinente ad un possibile impiego domestico, dalle mollette al vinile.
Curriculum
David LaChapelle
David LaChapelle
My House, 1997
cm 127×154
Courtesy B&D Studio Contemporanea – Private Collection, Milan
E’ il mitico fotografo della moda che accanto e per essa costruisce tesi scenari immaginifici. Gli è congeniale l’espressione portata all’estremo, nell’intensità cromatica, nella singolarità dei racconti visivi, che ricorrono al mito come alla citazione storica. L’eccesso è il suo metro, il kitsch, raffinato e trasgressivo, il suo stile. Interprete eccessivo di star internazionali, per esse inventa scenari allucinati, dominati da un personalissimo horror vacui. In mostra una Leda da terzo millennio, dal decoro debordante, e una coppia di colore, madre e figlia vestite di sgargiante, quanto ossessivo rosa shocking, su un fondale country.
Curriculum
Silvia Levenson
Silvia Levenson
Sono una signora, io, 1999
glass
cm 29x10x40
Courtesy Caterina Tognon
Artista argentina, trapiantata in Italia, si è fatta conoscere per i suoi abiti di vetro – la fashion-glass – come “debutto in società” (1999), singolari modelli a doppio taglio, splendidi nella loro luminosa trasparenza, ostili e pericolosi come armi improprie, perché dotati di acuminati aculei metallici e pungente filo spinato. Ha prodotto anche vestiti a taglienti lamette metalliche, parafrasando l’invenzione di Paco Rabanne, in versione “pericolosa”. Abito dunque come strumento di difesa/offesa, ma anche di tortura per chi l’indossa. Rimanda ad un’’antica storia della donna nel mondo e al suo vissuto personale in Argentina. Certo non mancano gioco ed ironia, uniti ad una grande capacità fattuale. Oggi la sua ricerca segue altri percorsi. Usando sempre il vetro come materia prima è portata a riflettere (con “piccolo Ulisse” ) sulla fragilità dei nostri mezzi di salvezza, “nel difficile viaggio della vita”.
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Anna Pontel
Anna Pontel
Barbie au crochet, 2003
Crocheted flimsy paper
Il suo percorso è tra gioco, ironia, fragili materiali di surroga, rispetto a quelli tradizionali Il punto di partenza è stato la mitica Barbie, la bambola fruita dalle bambine di tutto il mondo, ormai da decenni, simbolo di un consumismo regolato da un’inossidabile mercato internazionale. La Barbie e il suo sterminato guardaroba, appropriato ad ogni paese del mondo, foggiato spesso sul modello delle star cinematografiche. La caratteristica della Pontel è la dimensione fuori scala: abiti e strutture gigantesche fatte di carta e fil di ferro che ironizzano sullo stereotipo che il mito incarna e sull’irriducibile macchina del consumo. Per Imagerie Pontel ha inventato una gustosa produzione “seriale” di tute coloratissime lavorate all’uncinetto con filo di carta velina arrotolato.
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Luisa Raffaelli
Luisa Raffaelli
Guest, 2003
Lambda Print under plexiglas, cm 85 x 120
Courtesy La Giarina, Verona
Il suo è un costante inno alla donna; al suo fardello di sogni e desideri, alla sua ricerca identitaria, al suo muoversi nel mondo ansiosa di capire e sapere. Le sue giovani donne, acerbe adolescenti, rispecchiano allusivamente l’aura della moda, più che rappresentarla, come lo sguardo fugace di controllo nel piccolo specchio, il frugare frenetico in una borsetta, ricolma di bigiotteria, anziché dei consueti oggetti personali; oppure, nella recente variante, ricolma paradossalmente delle pieghe accumulate del suo stesso vestito. Piccoli slittamenti spiazzanti, come una defaiance della ragione. Nel lavoro più recente Raffaelli, dai prediletti colori tenui, che creavano dolci atmosfere in sordina, è passata alla violenza del rosso. ; un trasferimento visivo come di una tensione interna, intensificazione emotiva travasata nell’habitat circostante.
Curriculum
Sandy Skoglund
Sandy Skoglund
S(h)ock situation, 1986
Cibachrome Print
Courtesy B&D Studio Contemporanea – Scalamogna Collection, Milan
La grande artista americana ha legato il suo nome alle surreali trasformazioni ambientali, caratterizzate da anomale invasioni di animali, non percepite dagli umani che vi abitano. È la traduzione visiva di un incubo, realizzata tra l’altro con laboriose mise in scene , perché tutte le presenze sono vere, cioè effettivamente costruite, senza apporti digitali, dove lo scatto finale non è che il punto conclusivo di un lungo processo fattuale. La Skoglund ha sfiorato anche il mondo della moda, sempre da un’angolazione critica e concettuale, investendo, ad esempio, di colori irreali degli impettiti modelli maschili, o instaurando un particolare horror vacui, con l’affastellarsi di innumerevoli appendini colorati, allusa testimonianza di consumi sfrenati.
Curriculum
Olga Tobreluts
Olga Tobreluts
Adam, 2003
Digital print on canvas
cm 149 x 113
Courtesy Il Planetario
Proviene da quel rinnovamento culturale russo che prolifera a S. Pietroburgo in seno alla Novia Akademia. Un movimento che, nella crisi del postcomunismo, ha posto il suo fondamento nel recupero di un passato glorioso identificato, per ovvi motivi storico-culturali, nel classicismo. Tobreluts prende certo le mosse dalla statuaria greca antica, ma vi introduce di prepotenza alcuni anacronistici connotati attuali. Almeno su due versanti : l’uno sul piano tecnico-linguistico, in quanto le sue gigantografie sono elaborate al computer, l’altro, curiosamente legato alla moda, sul piano artistico. Le sue citazioni storiche infatti, siano esse l’Apollo del tempio di Olimpia, o celebri dipinti rinascimentali, si alterano per l’intrusione di una presenza decontestuale, come una maglietta Lacoste fatta indossare alla divinità sopradetta o un reggiseno accollato a una Venere ellenistica. Queste “vestizioni” forzate sfidano l’antichità a scendere dal piedestallo per confondersi con la quotidianità del terzo millennio.
Curriculum
Sandra Tomboloni
Sandra Tomboloni
Senza Radici, 2001
Plasticine on wood
Photo by Ela Bialkowska
Courtesy Biagiotti Arte Contemporanea
Il suo materiale è il pongo assieme al legno. Fiori di pongo, coloratissimi dunque, col calore della modellazione manuale ancora addosso, perché il materiale è tenero, consente continue modifiche, lo adoperano i bambini; la perfezione formale definita non si raggiunge mai. Sono “senza radici” perché sono un artificio, proliferano dovunque, rivestono qualsiasi cosa, ma innanzi tutto il corpo, S’aggregano allora in corpetti per rivestire un manichino, con ridondanza. Veicolano un gioioso senso fiabesco che sembra tradurre l’ anelito a una rinascita del corpo in un rinnovato clima di fresca spontaneità. E’ il gioco, la manipolazione dei materiali malleabili, caro all’infanzia, che torna qui. Un rivestimento evocativo di un mondo perduto, l’eco di momenti spensierati riportati a galla con l’intenso lavoro delle mani.
Curriculum
Angelo Pretolani
Angelo Pretolani
Spirit in the sky, 2003
Performance with Valentina Morelli
Sound design Marco Canepa
Tailoring Giuseppina Bruna, Maria Rosa Doglio
Production Fabrizio Boggiano
Curriculum
Silvio Vujĉić
Silvio Vujĉić
Sfilata per la University of Technologie of Textile of Zagabria
Curriculum
Martin Parr
Martin Parr
Milano – 25 novembre 2002. Lezione con gli studenti dello IED Istituto Europeo di Design
Courtesy C.P. Company
Courtesy Lipanje Puntin
Figura innovativa nella fotografia documentaristica sociale, per CPictures ha registrato in questa occasione una lezione di Carlo Rivetti, presidente della Società, agli studenti dello IED.E, fermandosi su ogni dettaglio investito di quotidianità che costituisce il tessuto del racconto. Con la sua visione divertente e provocatoria, ha caricato ogni attimo di colore, rendendo ogni cosa quasi irreale.
Curriculum
Gueorgui Pinkhassov
Gueorgui Pinkhassov
Ravarino – 2 dicembre 2002. Ricerca e prototipia.
Courtesy C.P. Company
Courtesy Lipanje Puntin
Il russo Pinkhassov ha compiuto invece una perlustrazione nella sede di C. P. Company in via Ravarino Colpito più dai dettagli significanti, che dalla visione d’insieme, offre una sua particolare lettura dell’azienda reinventando le cose, nel gioco delle luci , nelle alterazioni cromatiche, nelle dimensioni ingigantite dei dettagli. Il suo modo speciale di essere dentro la realtà delle cose s’incontra con gli ideali di libertà.
Curriculum
Sandro Sodano
Sandro Sodano
Milano 11 novembre 2002 Via Savona 54. Lo spazio, gli abiti
Courtesy C.P. Company
Courtesy Lipanje Puntin
La grafica e l’illustrazione sono il suo back-ground (si è specializzato alla Central St. Martin School di Londra). La fotografia è il suo talento e la sua passione. Alla purezza della visione associa la sperimentazione quasi materica sulla luce. Usa una rappresentazione anticonvenzionale della moda. Dal ’98 collabora con la C. P. Company per l’advertising.
Vesna Stojkovic
Renata Michelic
Renata Michelic
“Futuristic fashion will be post – atomic in the luteral sense, an eco-mix between design, recycling and fashion, a comfortable, rational yet bizzarre style made up of Renata Mihelic “sensitive” fabrics and objects that interact with the body and the enviroment. October 2002 Jacqueline Ceresoli
“If rubbers, industrial or recycled materials have an artisitc-aesthetic treatment “their sound is not flat” …meditating on some words of Roland Barthes, when I beagn October 2001 with OP over pure.” Achille Bonito Oliva
Photo concept Alberto Moretti for OP over pure
Curriculum
Alchemia
Alchemia
ALCHEMIA (SARA SALVATICO & ANGELO PELIZZA)
Performance La couleur clè des sens from Trilogia, 2002
Curriculum
Bertola e Vitacchio
Bertola e Vitacchio
Performing Ladies & Gentle, 2002
Photo by Gabriella Melfa
Curriculum
Micha Klein
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